di Maria Serra
“Finalmente la Croazia torna nel cuore dell’Europa”: con queste parole lo scorso 1 luglio il Presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, ha salutato l’ingresso di Zagabria nell’Unione Europea. Un’affermazione tuttavia che – al di là della soddisfazione per il raggiungimento di un obiettivo perseguito da 6 anni – lascia forse intravvedere quella che è stata (e in taluni casi continua ad essere) la percezione variamente avvertita nei confronti dei Paesi balcanici (lì dove parlare di “Balcani” può riferirsi alla categoria politica all’interno della quale tali nazioni vennero inserite a partire dall’Ottocento) all’interno dell’Europa, quella unita: una terra “di nessuno”; luogo di incontro tra lingue, culture e religioni diverse; crocevia tra il Nord e il Sud e, soprattutto, tra l’Ovest e l’Est ma non solo come retaggio della cortina; territorio diventato sinonimo di disordine politico, che ha dato luogo all’idea/concetto di “balcanizzazione” (che largamente ha condizionato lo sviluppo politico di altre aree del mondo) come tendenza alla continua frammentazione su base nazionalista di unità geografiche in entità statuali più piccole e dagli equilibri più fragili. Per lungo tempo i Balcani sono stati visti come “altro” dall’Europa e solo dalla fine degli anni Novanta – quando si sono venute a creare le condizioni politiche ed economiche – la regione ha assunto progressivamente la dimensione del “vicinato di casa” di un’Unione Europea che, forte del motto “unità nella diversità”, ha sempre più puntato ad ingrandire – pur con certe regole – il proprio condominio. Dopo anni di sostanziale immobilismo, l’ingresso della Croazia in questo processo di costruzione europea (espressione che meglio racchiude in concetto stesso di integrazione), apre nuovi scenari per le altre giovani Repubbliche balcaniche, le quali, nonostante la difficile congiuntura economica e nonostante il persistere di ritrosie interne, guardano a Bruxelles come ad una meta fondamentale in termini di sviluppo economico, politico-normativo e sociale, allontanando da sé l’immagine di “polveriera d’Europa”.
Quali prospettive, dunque, si aprono? Quali problemi restano ? E quali sfide devono affrontare i Balcani del XXI Secolo? Ne abbiamo parlato con Matteo Tacconi, giornalista professionista esperto di Balcani, Europa centro-orientale e area post-sovietica. Collaboratore per diverse testate, tra cui Europa, Limes, East e Narcomafie, scrive anche per Osservatorio Balcani e Caucaso, Rivista Studio, IL del Sole 24 Ore e Il Venerdì di Repubblica. Collabora inoltre con l’OCSE come osservatore elettorale ed è autore di: “Kosovo: la storia, la guerra, il futuro” (2008); “C’era una volta il Muro: viaggio nell’Europa ex-comunista” (2009); “Me ne vado a Est” (2012), un’inchiesta, firmata insieme a Matteo Ferrazzi, sulla presenza imprenditoriale italiana nell’Europa centrale, orientale e balcanica. Ha curato anche “Narconomics”, un’inchiesta sul narcotraffico internazionale. Gestisce, infine, un blog, il suo: Radio Europa Unita – Gli Orienti del Vecchio Continente.
Con l’ingresso della Croazia come ventottesimo Stato membro, l’Unione Europea è tornata dopo 6 anni ad allargarsi, contribuendo a mitigare l’euroscetticismo serpeggiante a causa della crisi politica – prima ancora che economica – che il nostro Continente vive. Come leggere questa adesione e quali prospettive concrete, a questo punto, per gli altri Stati balcanici (non solo per la Serbia o il Kosovo di cui tanto si parla, ma anche per la Macedonia che ha ottenuto lo status di Paese candidato da ormai ben 5 anni)?
L’ingresso della Croazia non sblocca gli altri processi di europeizzazione in corso nei Balcani. Ogni Paese è padrone del proprio destino e gestisce bilateralmente i propri rapporti con l’Unione Europea, fermo restando che più è alto il livello di cooperazione regionale (uno dei cardini dell’avvicinamento a Bruxelles, fissato dalla stessa UE), maggiori sono le possibilità di accelerare l’integrazione nello spazio comunitario.
Se l’accesso croato non ha ripercussioni sul resto dei Balcani, è vero, tuttavia, che il recente accordo sulla parziale normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, sancito lo scorso aprile, può aprire scenari positivi nella regione. Penso alla Macedonia, ma anche alla Bosnia: due paesi che hanno relazioni complicate tra le comunità nazionali presenti all’interno dei loro confini, come il Kosovo, dove la coesistenza tra la maggioranza albanese e la minoranza serba è difficile, ma, s’è visto, non impossibile. In ogni caso, va ribadito che nei Balcani, a livello di integrazione in Europa, non ci sono stati, né ci saranno “effetti domino”: chi entrerà in Europa lo farà sostanzialmente grazie alle proprie forze e alla propria volontà, secondo i propri tempi.
Il percorso dei Balcani Occidentali nell’UE è più accidentato e senza scorciatoie rispetto a quello dei partner Orientali: i meccanismi di condizionalità a cui si stanno sottoponendo le ex Repubbliche federate jugoslave e non (come l’Albania), sembrano essere più stringenti rispetto a quelli cui si sono dovuti informare Romania e Bulgaria. Come spiega questa diversità e come viene percepita (se viene percepita) questa differenza all’interno degli stessi Paesi della regione?
È più accidentato, è vero. Ma Romania e Bulgaria non hanno vissuto né guerre, né disgregazioni statuali. I conflitti degli anni ’90 e la disgregazione della Jugoslavia allungano inevitabilmente i tempi dell’integrazione dei cosiddetti Balcani occidentali.
Quanto alle condizionalità, non metterei l’accento, come fa qualcuno, sullo scetticismo – in alcuni casi può diventare persino pregiudizio – che in Europa si nutre a riguardo dello spazio balcanico. Né sulla sindrome da “over-enlargement” che ha contaminato l’UE dopo il 2004, quando entrarono dieci paesi in un solo colpo. Per quanto questi due elementi esistano, l’aumento del tasso di condizionalità è una conseguenza naturale dei processi negoziali e della spinta espansiva dell’UE. Ormai la comunità conta 28 membri e ha raggiunto ottimi obiettivi in termini di “riunificazione continentale”. È logico che, da adesso in avanti, chi entra dovrà non solo avere le carte in regola, ma essere capace di amalgamarsi il più rapidamente possibile, dato che, dopo l’allargamento del 2004, c’è stata una progressiva convergenza tra Est e Ovest dell’UE, tale da rendere più armonici gli equilibri dell’Unione.
A proposito di Balcani Orientali: nelle ultime due settimane – e più in generale dall’inizio dell’anno – a Sofia e nelle principali città della Bulgaria si stanno tenendo importanti manifestazioni anti-governative. Quali similitudini con le forme di protesta degli altri Paesi europei ed, eventualmente, con quelle della Turchia?
Si sta cercando da più parti di trovare una lettura comune alle proteste di piazza degli ultimi mesi. Non necessariamente c’è. Tra Bulgaria e Turchia non vedo grosse similitudini, così come non ce ne sono tra le recenti manifestazioni di Sarajevo (la cosiddetta baby revolution) e quelle di Istanbul. Nel caso bulgaro si scende in strada a protestare contro una classe politica che ha dimostrato di essere inefficiente, corrotta e distante dai reali bisogni della popolazione, una cui parte vive in condizioni di indigenza. Non va dimenticato, infatti, che a prescindere da un quadro finanziario stabile, la Bulgaria è il paese meno ricco d’Europa e la crisi globale ha avuto un duro impatto su centinaia di migliaia di cittadini. In Turchia la situazione è molto diversa. La protesta è stata trainata dalla classe media, allargatasi notevolmente nel corso degli ultimi dieci anni, durante i quali c’è stata una crescita economica strabiliante, che ha liberato dalla povertà milioni di persone. Ecco, a mio avviso è questo processo – molto più che il tradizionale duello tra laicisti e islamici – il motivo principale delle sollevazioni popolari in Turchia. Alla classe media la sola crescita economica non basta più. Una volta raggiunto il benessere individuale, scattano altre esigenze: equità, sostenibilità ambientale, qualità della vita, buongoverno, trasparenza nei processi decisionali, contrappesi al potere dell’esecutivo, argini nei confronti del populismo e del peso della fede nello spazio istituzionale.
Proprio Ankara sembra aver negli ultimi anni riscoperto i Balcani promuovendo accordi di libero scambio e investimenti soprattutto in Bosnia, Albania e Macedonia. Si tratta solo di business o la scelta turca è finalizzata ad esercitare un vero e proprio soft power nei confronti dei vicini balcanici? E, in questo senso, ciò crede che possa rappresentare una minaccia di esautoramento o un’opportunità per Bruxelles di riportare l’intero vicinato nella casa europea?
Si è molto parlato dell’attivismo economico e diplomatico della Turchia nei Balcani. Indubbiamente Ankara è stata molto dinamica nella regione. Ma non saprei dire quanto la Turchia possa essere attraente (in Bosnia lo è solo nel segmento musulmano del paese) e quanto sia capace di sviluppare un soft power concorrenziale nei confronti dell’UE, che offre integrazione economica e politica, mercato unico e libera circolazione di merci, capitali e – in prospettiva – genti. È un’offerta molto più ampia e articolata di quella che può presentare la Turchia. Il cammino è segnato: i Balcani entreranno in Europa, alla spicciolata, con tempi più o meno lunghi. Ma entreranno. Né il soft power turco, né la leva energetica russa possono inceppare questo processo.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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