Nel 2010 Antonio Padellaro, direttore de Il Fatto Quotidiano, ha affermato: «Avevamo detto: proviamo a fare un giornale che abbia una proprietà e non un padrone. Che non debba mai chiedere il permesso a nessuno». Dopo due anni una delle migliori firme, Luca Telese, se ne va assieme ad un pugno di giornalisti e sei soci perché Beppe Grillo è ormai il nuovo padrone di Padellaro e Travaglio (anche se Grillo riteneva nel 2006 che chi lavora con Padellaro perda la sua reputazione).
Non che ci sia qualcosa di male nei grillini, ma la contraddizione de Il Fatto è clamorosa, leggendo Telese. Secondo Angela Azzaro, vicedirettrice del settimanale “Gli altri”, «”Il Fatto” vive della dinamica scandalistica. Il quotidiano di Antonio Padellaro ha successo perché si inserisce in questo circolo vizioso di scandalo e populismo. Vuole colpire la “pancia” del lettore. Se la prendono con i plastici di Bruno Vespa ma sono solo più volgari e ingenui delle rappresentazioni capziose che compaiono sui più raffinati giornali. Spesso mettendo in piazza la vita privata delle persone, condannandole ancora prima che ricevano un avviso di garanzia».
Un’analisi assolutamente precisa del metodo di lavoro degli amici di Padellaro, sopratutto per quanto riguarda il loro grande nemico: la Chiesa cattolica. I giornalisti de Il Fatto, come Marco Politi e Marco Lillo sono dei veri esperti di creazione di bufale anticlericali, tanto che ormai gli altri quotidiani si guardano bene dal riprendere i loro sedicenti scoop (ed è inutile che si lamentino di questo ogni volta!).
Sarà perché proprio di recente è cambiato amministratore e Padellaro e Travaglio sono stati messi in minoranza, sarà perché Padellaro e Travaglio sono stati salvati (guarda che fortuna!) per un cavillo incredibile dalla colpevolezza di diffamazione, ma il processo andrà avanti con un altro giudice, resta il fatto che lo sfogo contro la Chiesa è diventato di recente serrato e quotidiano. Lo ha sottolineato anche l’editorialista di “Avvenire”, Gianni Gennari.
All’inizio di maggio Il Fatto è andato in tilt su un convegno dell’Agesci (guide e scout cattolici) dedicato all’omosessualità (tenutosi a novembre). Si sono chiesti a “Il Fatto”: è meglio usare questo caso per attaccare la Chiesa circa la discriminazione dei gay, oppure è meglio attaccarla facendo vedere che gli scout “sono più avanti” e affidano agli educatori gay delle responsabilità importanti? La risposta è stata: “tutte e due, tanto che c’importa a noi?”. E infatti il 5/5/12 Marco Politi ha attaccato la Chiesa attraverso la seconda modalità, facendo notare che secondo l’Agesci ci possono essere capi-scout gay e che sono dunque «da attendersi ruvide reazioni vaticane». Ma il giorno prima era uscito un articolo in cui si informava che l’Agesci aveva detto «no al coming out dei “capi” gay e giovani scout omosessuali». In realtà sono due bufale, in quanto sono stati trasformati gli atti di un convegno in vere e proprie norme interne dell’organizzazione, per questo altri quotidiani hanno parlato di “stampa in fuorigioco” ed inutile “bufera mediatica”.
Sempre a maggio, Il Fatto ne combina un’altra. L’obiettivo è colpire il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, una interessante realtà che non accetta di nascondere la fede in sacrestia, divenendo molto scomoda per il laicismo promosso da Padellaro e amici. Viene dunque pubblicato un documento, trafugato illegalmente (è ricettazione?), del responsabile di CL, don Julian Carron destinato al Nunzio apostolico in Italia, monsignor Giuseppe Bertello, nel quale il sacerdote spagnolo suggerisce quale successore di Dionigi Tettamanzi il card. Angelo Scola, allora patriarca a Venezia. Il solito Marco Lillo, sagace compare di Politi, fa passare il documento come una forte pressione per di CL al Vaticano, interessati a conquistare tramite un cardinale “amico” anche l’arcivescovado di Milano oltre che le stanze papali (il Papa ha scelto quattro esponenti di CL come aiutanti di casa sua). Tuttavia, come è stato fatto ampiamento notare, don Carron rispondeva a un invito rivolto a lui, come ad altri responsabili di movimenti e associazioni oltre che – di default – a vescovi, proprio dallo stesso Bertello per sondare, come da prassi, candidature da porre all’attenzione del Santo Padre per la nomina del successore di Tettamanzi. Nulla di nuovo, solo prassi. Si è poi scoperto, oltretutto, che Benedetto XVI la pensava esattamente come don Carron.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, è bene comunque arrivare ai giorni recenti in cui il solito Marco Lillo (ormai in gara con Politi a chi le spara più grosse) ha dato notizia del rapporto Moneyval, il comitato degli esperti anti-riclaggio europei, sullo Stato Vaticano. Secondo Lillo «lo Stato Vaticano è stato bocciato otto volte». Poi si scopre leggendo l’articolo che è stato bocciato 8 volte su sedici, quindi si potrebbe dire che è stato promosso otto volte su sedici (come mai Lillo sceglie un’altra formula?). Secondo il giornalista d’assalto, dunque, «l’inclusione della Città del Vaticano nella lista grigia dei paesi poco affidabili durante l’assemblea plenaria di Strasburgo che si terrà dal 2 al 6 luglio, sembra sempre più probabile». Peccato che su “Il Corriere della Sera” venga smontata l’ennesima bufala de Il Fatto, perché si rivela che «alla Santa Sede» è stata data «una valutazione negativa in 8 dei 49 criteri standard in base ai quali viene attualmente valutata la trasparenza finanziaria di un Paese». 8 su 49, dunque, e non 8 su 16 come vorrebbe inventarsi Lillo, così «il punteggio complessivo assegnato al Vaticano dal rapporto ispettivo Moneyvall — che verrà discusso a Strasburgo il 4 luglio — rimane pur sempre al di sotto dei 10 punti negativi». Certo, non sappiamo se davvero il Vaticano entrerà nella white list, ma il Vaticano «potrebbe avercela fatta» (finalmente, aggiungiamo noi!).
Il Fatto Quotidiano ha molto in comune con l’ipocrisia dei radicali: fingono di essere superiori ad ogni schieramento, ma poi sono sempre più schiavi dell’ideologia anticlericale; fingono di rifiutare i finanziamenti pubblici ai giornali ma poi -come rivela “L’Unità”- «fino a poco fa si battevano in difesa dei giornali “imbottiti di soldi pubblici”», con giornalisti che «ci lavoravano tranquillamente senza porsi alcun problema di coscienza».