La scoperta nella calotta antartica
di Mattia Luca Mazzucchelli
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La calotta antartica e il continente coperto: entrambi riservano ancora molte sorprese.
Forse nell’immaginario dei più l’Antartide sembra una distesa piatta, omogenea e bianca di ghiaccio. In realtà sotto sotto è un continente dotato di tutto: catene montuose, pianure, laghi e coste. Solo che a ricoprirli c’è uno strato di ghiaccio spesso in media 1,5 chilometri, da cui fanno capolino solo le vette più alte delle montagne.
Questo continente surgelato, si sa, ha sempre esercitato un certo fascino su esploratori e scienziati. E ancora oggi, nonostante si conosca già molto della sua morfologia, riserva delle sorprese. Perciò durante l’IPY è stata promossa una spedizione internazionale (chiamata AGAP) per effettuare uno studio sistematico sull’ultima catena montuosa inesplorata della Terra: i Monti Gamburtsev.
I Gamburtsev sono un insieme di montagne morfologicamente simili alle Alpi e raggiungono i 3.400 metri, ma sono sempre coperti di ghiaccio. Anzi, vi sono letteralmente immersi. Raggiungere una montagna che si trova sotto uno strato di almeno 600 metri di solido ghiaccio non è agevole. I primi a capire che lì si trovava una catena montuosa furono alcuni scienziati russi, 50 anni fa, mentre posizionavano dell’esplosivo per un esperimento di sismologia. Ora però esistono tecnologie che permettono di scoprire quello che sta sotto restando sopra.
Perciò i ricercatori si sono posizionati sopra il Domo A, una superficie pianeggiante della calotta che sovrasta la catena montuosa, nella zona orientale del continente. Con strumenti come radar, gravimetri e magnetometri, montati anche su aerei, hanno ricostruito l’andamento del rilievo roccioso seppellito. Poi, già che c’erano, potevano non studiare il ghiaccio che stava tra i loro piedi e le montagne?
Così sono stati visualizzati gli strati interni della calotta, detti orizzonti isocroni, che non sono altro che i vecchi strati superficiali del ghiaccio via via sommersi dalla neve successiva. A ogni livello può essere attribuita un’epoca di formazione ben precisa, e la diversa composizione di ognuno rivela informazioni sul tipo di atmosfera e clima di quel periodo: è l’oggetto di studio della paleoclimatologia, cioè la scienza che indaga i cambiamenti climatici nella storia della Terra.
Tuttavia si sono trovate anche zone dove la stratificazione non esiste o è molto frammentata. Il motivo sembra essere che lì il ghiaccio non si forma per compattamento della neve dall’alto, ma per innalzamento di strati ghiacciati dal basso. Caratteristica comune a tutti i ghiacciai è una pellicola d’acqua alla base, dove si forma per il calore del terreno, per l’attrito o perché l’aumento di pressione porta il punto di solidificazione al di sotto dello zero. L’acqua può poi raccogliersi in veri e propri laghi subglaciali. Non va dimenticato che in Antartide la calotta poggia su intere montagne, e l’acqua dei laghi per l’alta pressione può essere obbligata a risalire lungo i pendii. Risalendo incontra pressioni e temperature via via minori e quindi risolidifica. Ne risultano colonne di ghiaccio che premono sugli strati sovrastanti facendoli innalzare, e ovviamente la stratigrafia viene modificata. E’ stato calcolato che sotto il Domo A circa il 24 per cento della superficie della base è di ghiaccio risolidificato. E addirittura in alcuni punti il ghiaccio formatosi in questo modo è molto di più di quello originato dalle precipitazioni nevose.
“Di solito immaginiamo le calotte come delle torte, fatte da strati aggiunti dall’alto. Ma ora è come immaginare che venga iniettato uno strato di ghiaccio alla base”: così sintetizza Robin E. Bell, del Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University. “L’acqua è sempre stata considerata importante nella dinamica dei ghiacciai ma soprattutto come lubrificante. Quando i ghiacciai cambiano, noi dobbiamo prevedere come lo faranno. I nostri risultati mostrano come i modelli debbano prendere in considerazione l’acqua profonda”.
L’intero processo è stato descritto da un gruppo di ricercatori guidati da Bell in un articolo presentato su “Science”. La scoperta è avvenuta nella calotta orientale dell’Antartide, ma gli autori non escludono… anzi sono convinti che lo stesso accada sia nella calotta antartica occidentale sia in Groenlandia. “Incorporare questi risultati nei modelli permetterà previsioni più accurate sulla risposta delle calotte al riscaldamento globale e sul conseguente innalzamento del livello del mare”, afferma Fausto Ferraccioli, del British Antarctic Survey, membro del gruppo di ricerca. Inoltre il meccanismo altera la stratificazione originale delle calotte. Spinge il ghiaccio dei livelli bassi (quindi molto antico) verso la superficie e ne favorisce la preservazione salvandolo dallo sfregamento contro le rocce del suolo. Per contro, la zona del ghiacciaio che fornisce l’acqua di fusione viene distrutta. Un aspetto imprescindibile per chi, come i paleoclimatologi, deve stabilire accuratamente la posizione dei depositi di ghiaccio più antico.
Bell, R., Ferraccioli, F., Creyts, T., Braaten, D., Corr, H., Das, I., Damaske, D., Frearson, N., Jordan, T., Rose, K., Studinger, M., & Wolovick, M. (2011). Widespread Persistent Thickening of the East Antarctic Ice Sheet by Freezing from the Base Science DOI: 10.1126/science.1200109