Il “self made man” Elkann non ha solo perso un’occasione per mostrare, semmai ce ne fosse ancora bisogno, di che pasta è fatto, ma infine, con la tipica boria di colui che sa non potergli accadere niente, si è rivelato ostentando inconsapevolmente la sua lunga coda di paglia. Il rampollo della Fiat, durante un faccia a faccia cogli studenti di Sondrio, palesando un’invidiabile impudicizia, ha così sentenziato su di loro: “molti giovani non trovano lavoro perché stanno bene a casa”. Apriti cielo. Eppure, al netto del nugolo di suorine la cui indignazione è direttamente proporzionale al danno procurato a quegli stessi giovani, Elkann non ha fatto altro che esplicitare un sentimento piuttosto diffuso in molti ambienti. Sarà anche solo spicciola ontologia da bar, ma la retorica sul “giovane” sfaticato che non ha voglia di sporcarsi le mani per guadagnarsi il pane quotidiano, ché ci pensa sempre papà, è una macchietta ben radicata e diffusa in molti ecosistemi frequentati da laboratores per “spirito di flessione”. Sono quelli appartenenti ad una specie in via di estinzione che, mossa esclusivamente dal risentimento e dalla mancanza di riconoscimento sociale, vede nel presunto disinteresse alla fatica dei giovani un affronto al loro lavoro, e con esso pure la conferma della propria inutilità. Il loro, benché dettato da più di qualche frammento di ragione, è uno sdegno che si qualifica solo col bisogno di sopravvivere ad un mondo che gli ha voltato le spalle (una bizzarra legge del contrappasso: la beffa di non “contare” più niente in un ecosistema che hanno contribuito a costruire, quello stesso che ha posto l’utilità e il risultato quali beni ultimi a cui tendere). Per dirla con Nietzsche “la morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria”. Appoggiare il proprio soggetto alle funzioni esistenziali di una comunità umana o a qualsiasi altra natura alienante e totalizzante che sia in grado di sopire il suo essere sostituendosi ad esso, affidando a questo palliativo spersonalizzante il compito d’illuminare un’esistenza che pare incapace di farsi luce da sé, sembra l’ennesima furbata degli “sfaticati” esistenziali per continuare ad eludersi in quanto uomini e non lavoratori. Ma lasciando la fauna dei risentiti al loro bisogno di rivalsa su quel mondo “irriconoscente”, le parole di Elkann, oltre a gettare luce sui biliosi di tutte le specie, ci permettono di comprendere, in profondità, le demenziali aspettative con cui si è voluto “caricare” il nuovo mito del lavoro.
Ormai ci sentiamo obbligati a
lavorare, pena la denigrazione sociale. In tal caso noi italiani abbiamo pure
avuto la protervia di istituzionalizzarlo rendendolo fondante la nostra
Repubblica, decretando così, di fatto, l’impossibilità di garantirlo (è un vizio tipicamente moderno, di quell’esprit de géometrie che tutto vuole
con-prendere per de-finire, stabilire diritti che non è in grado di garantire).
Lavorare è un obbligo, è un dovere indispensabile per tenere in piedi il
carrozzone che ci governa e ci sovrasta: saturare il vuoto producendo altri
inutili oggetti, creare nuovi bisogni e nuovi servizi a cui delegare la cura
della nostra singolarità, rinnovare vincoli di dipendenza materiale. Eppure talvolta sembra che quei nuovi prodotti e quei nuovi bisogni servano più al lavoratore che al dominus mercantile. Solo in tal modo si spiega forse l’etica doverista
del lavoro. Rimbecilliti dalla velocità e fiaccati dal benessere, ci siamo
bellamente costretti a produrre e a consumare, anzi, paradossalmente a
consumare per produrre, a ritmi via via più martellanti ed alienanti,
angoscianti, stressanti. E siamo pure
riconoscenti a quell’attività priva di senso, perché, riempiendoci la giornata,
ci occupa distraendoci da tutte quelle responsabilità singolari a cui la vita
altrimenti ci richiamerebbe. Non è forse vero che il solo pensiero di dover
colmare il proprio tempo libero ogni sacrosanta domenica è tra le angosce
peggiori del piccolo medio artigiano e dello stakanovista volitivo? Incapaci di
personalità e di preferenze, non riusciamo nemmeno più a distinguere ciò che è
essenziale da ciò che non lo è: tra ciò che “serve a vivere”, paradossalmente,
non c’è la vita. L’espresione: - bisogna
lavorare per vivere -, a ben vedere non è altro che l’ultima giustificazione di
colui che non si vuole liberare dalla propria dipendenza, ché forse ha fiutato
che altrimenti non rimarrebbe nient’altro.
Il lavoro invade così l’assenza di
singolarità senza tuttavia colmare quell’horror vacui. Per dirla sommariamente
con Fini: “il vuoto ci fa orrore perché
ci costringerebbe a fare i conti con noi stessi”.
I nostri giovani hanno capito, fosse
anche che gli facesse comodo capirlo, che in realtà non è il lavoro a rendere
liberi (l’arbeit macht frei che
rievoca sinistri ricordi), né a dare dignità all’uomo, come vorrebbe il
racconto biblico e il nuovo papa “piacione” Bergoglio. I giovani sembrano aver subodorato, loro malgrado, il vizio celato di ogni etica del lavoro: nella società dell’immagine e dei consumi è solo il reddito a dare dignità (la diffusa disonestà, endemica, ammirata più che combattuta, o il fenomeno delle baby squillo a cui la paghetta non basta più ne sono, seppur sommariamente, emblematici esempi). Una società che ha preposto l’interesse alla vita, attribuendogli peraltro il nome di dovere, non può fare la morale ai nostri se nel nome di quello stesso interesse hanno capito che il gioco non vale la candela.




