Quell’autunno alla Chico State mi iscrissi ai corsi obbligatori per la maggioranza delle matricole, ma mi iscrissi anche a un corso chiamato Creative Writing 101. Questo corso doveva essere tenuto da un nuovo membro della facoltà che si chiamava John Gardner, intorno al quale cominciava già ad aleggiare un pizzico di mistero e di fascino. Si diceva che avesse insegnato precedentemente all’Oberlin College ma che se ne fosse andato da lì per qualche motivo imprecisato. Uno studente diceva che Gardner era stato licenziato – gli studenti, come chiunque altro, si crogiolano nel pettegolezzo e nell’intrigo -, un altro diceva che Gardner se n’era semplicemente andato in seguito a una specie di discussione. Qualcun altro diceva che il suo carico di lavoro d’insegnante, quattro o cinque classi di matricole d’inglese per semestre, era troppo gravoso e che egli non riusciva a trovare il tempo per scrivere. Perché si diceva che Gardner fosse un vero scrittore, vale a dire uno scrittore di professione – uno che aveva scritto romanzi e racconti. A ogni modo avrebbe insegnato Creative Writing 101 alla Chico State, e io mi ci iscrissi.
Ero emozionato all’idea di prendere lezioni da un vero scrittore. Prima di allora non avevo mai visto uno scrittore in carne e ossa ed ero in soggezione. Ma volevo sapere dov’erano questi romanzi e questi racconti. Be’, non era stato ancora pubblicato niente. Si diceva che egli non riuscisse a far pubblicare il suo lavoro e se lo portasse dietro dentro delle scatole. Dopo essere diventato suo allievo, ebbi la possibilità di vedere quelle scatole piene di manoscritti. Gardner si era accorto della mia difficoltà a trovare un posto dove lavorare. Sapeva che avevo una famiglia con dei bambini piccoli e poco spazio per lavorare a casa mia. Mi diede la chiave del suo ufficio. Adesso vedo in quel regalo una svolta. Non era stato fatto a caso e io lo accolsi, credo, come una specie di mandato – perché di questo si trattava.Raymond Carver in John Gardner, “Il mestiere dello scrittore“, 1989, Marietti.
Il “mandato” di cui parla Carver ha un forte valore simbolico. Non è tanto il luogo fisico in cui scrivere.
Prima che Gardner gli desse le chiavi dell’ufficio per scrivere comodo, Carver aveva vissuto situazioni precarie e spesso raccontava di quando cercava dappertutto un rifugio, ma anche della carta da pacchi per mettersela sulle ginocchia e scrivere così i suoi racconti perché non poteva farne a meno.
La vita vissuta, per chi scrive, è senz’altro maestra.
Il dilemma è tutto lì: raccontare la realtà, trasformarla, farne ciò che si vuole, usarla a fini metaforici o altro. Ma è necessario disporre un luogo in cui sperimentare l’artigianato dello scrivere e in cui trovare fiducia in un ascolto, in un riconoscimento delle proprie possibilità.