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Il Maruzzaro di Napoli

Da Antonio

Il “Maruzzaro” era il venditore di chiocciole o lumache. Il termine “maruzza” – o “maruzzella” – indica sia la lumaca di terra dalla scia d’argento sia quella di mare. Si dice “maruzza spugliata” se è priva della “scorza” (il guscio). A proposito delle “maruzze”, Gaetano Valeriani nel 1847 così ne parla: “Chiocciole terrestri, ossieno quelle Lumacone col guscio sulla schiena, che in strisciar sulle muraglie e sul terreno, lasciano una lunga striscia di umore viscoso e perlato, onde se ne conosce sempre la via da esse tenuta? Queste trovansi alla campagna; in maggiore abbondanza compariscono fra le erbe, e pe’ muri vecchi allorché ha di fresco piovuto. Rarissimi popoli, e fra questi l’ultima plebe, qualche volta prendele e fanne suo cibo. L’unica maniera in che l’usano è di farle fritte in lardo o olio, dopo averle però tenute più giorni digiune a purgarsi. Niun popolo però ne fa mercato, chè presso niun popolo hanno le chiocciole o maruzze prezzo alcuno, sebben vilissimo. In Napoli, ove della creazione nulla si getta, la bisogna è ben diversa. Il commercio delle maruzze è trasmodato”. Le chiocciole terrestri furono apprezzate in gastronomia fin dai tempi di Trimalcione; famosa nel ‘500 la specie matesina. Il Maruzzaro al mattino andava a caccia di questi preziosi molluschi (o li comprava dai contadini che li portavano al mercato, soprattutto da Sora, S. Germano, Venafro) e dopo averli messi a spugnare ponendoli sotto un vaso rovesciato, li bolliva con un po’ di sale e qualche pomodoro o con un ciuffo di prezzemolo o di cerfoglio. Poi, metteva il suo pentolone su di un cesto basso (detta “sporta”) pieno di cenere e di brace e vendeva le “maruzze” nei piatti accompagnate dalle “freselle” (fette di pane simili a schiacciate di farina di frumento) o da biscotti, immerse nel brodo grigiastro prodotto dal mollusco. La zuppa era richiesta specialmente durante le feste patronali. Col “Maruzzaro” però c’era da stare attenti. Come detto, infatti, le lumache prima di essere mangiate devono essere lasciate a digiuno per 5 o 6 giorni in modo che l’effetto di eventuali erbe nocive da loro ingerite possa svanire. Questa prassi, però, non sempre veniva seguita rigorosamente e, qualche volta, si poteva assistere alla morte di chi, a sua insaputa, aveva mangiato queste lumache avvelenate. Al calar dell’ombra il venditore poneva i gusci vuoti sull’orlo della pignata sempre calda, li colmava di olio e applicava uno stoppino: così il cibo era rischiarato da una corona lucente. Chiamava “monache” gli oggetti della sua proposta culinaria. Per propagandare la più grandi gridava: “Monaca, mo’! ‘O carro cu tutte e vuoie tenevano cheste?”. Per le piccole: “Munacé, fattenne n’ata zuppa!”. Altra voce registrata da Caravaglios: “Tengo ‘e maruzze d’ ‘a festa ca so’ meglio d’ ‘e cunfiette”. Più tardi il “maruzzaro” offrì anche lumache di mare, anch’esse lungamente spurgate. E poi cozze e altri frutti marini. La “maruzza” ha sempre colpito l’immaginario popolare. Di un vigliacco si dice: “Me pare Pulecenella spaventato d’ ‘e maruzze”. Il marito tradito “tene cchiù corna ‘e nu cato ‘e marruzze”. “Maruzza” era anche il nome – prima dei bigodini – della ciocca di capelli avvolta nella carta e fermata da una forcina, per arricciarla. “Mannaccia ‘a Maruzza” è un’imprecazione che ferma la bestemmia sulla soglia. Al maruzzaro dedica una battuta Raffaele Viviani: “Quanno chiù notte se fa, chiù ‘e corne belle te caccia ‘a maruzza attuorno ‘o giro d’ ‘a caccavella”. L’etimologia, dice Renato de Falco, viene dal tardo latino “maruca”, di marina radice.



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