Ho terminato di leggere “Il mestiere di scrivere” di Raymond Carver. Adesso dovrei iniziare con “Il volto incompiuto” di Flannery O’Connor; parlerò anche di questo, appena trovo il tempo.
Si tratta di un libro che si ama tenere vicino, a portata di mano, anche dopo che si è terminato; un po’ come è accaduto con “Nel territorio del diavolo” della O’Connor. Cosa c’è di interessante in quelle pagine, e perché secondo me, è da leggere?
Provo a rispondere.
Innanzitutto, c’è il suo autore. La fatica del vivere e dello scrivere. Già questo dovrebbe servire a quanti credono che adesso sarà facile avere successo o consenso. Se c’è una cosa che balza agli occhi è la dolorosa consapevolezza che la scrittura da una parte, pretende disciplina, coraggio e follia.
Dall’altra, la vita non permette molta libertà. Perché c’è da portare a casa la pagnotta. I figli da crescere. Il lavoro che ti toglie le ore, i giorni, e tutto quello che hai da offrire alla scrittura, è solo una domenica pomeriggio. E a volte nemmeno quella. Tutte cose che Carver ha vissuto sulla propria pelle.
Molto toccante un po’ tutto; sì toccante. Non è una narrazione strappalacrime, tutt’altro. Eppure si percepisce la determinazione di Carver, il dolore per i compromessi cui si è dovuto adattare: i traslochi, i lavori strambi. Le incombenze quotidiane.
Capii che gli scrittori erano gente che non passava il sabato in lavanderia.
Ecco: forse in questa frase c’è tutto, e il suo contrario.
L’idea (balzana), che tutti sono in grado di scrivere (“Se lui andava in lavanderia, ed è diventato Carver, allora anche io…”).
La fatica di mantenere lo sguardo fisso sul proprio sogno (diventare scrittore), la paura di fallire.
Persino l’America si trova (quasi) tutta qui, in queste semplici parole: basta leggerle, e pure ignorando chi le abbia scritte ci troviamo in un lampo dall’altra parte dell’Oceano.
E la caparbietà. La scelta di scrivere racconti brevi (dovuta allo scarso tempo a disposizione). Assieme, il desiderio di costruirsi una cultura, di frequentare l’Università, di conoscere gli scrittori.
Non si tratta di una lettura di formazione. O almeno, non credo che il libro sia stato creato con questa intenzione.
Piuttosto, ci vedo il desiderio di spiegare ai lettori la forza, la bellezza della parola. Se una persona si sbatte così tanto per scrivere, se dopo la fatica di un giorno lavorativo arriva a sedersi nel retro della propria casa per ritagliarsi un paio d’ore di scrittura, o è matta, o è grande.
Le fisime. Tutte le fisime che abbiamo a proposito di quale programma di videoscrittura usare; dell’ambiente, della luce adatta, della sedia o poltrona. Tutte idiozie: o scrivi, o non scrivi. O hai qualcosa da dire e allora provaci, oppure togliti di torno.
Carver non è mai diretto, cattivo. Ironico, sì. Ci sono un paio di lettere verso la fine del libro, di scrittori che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, di averlo come insegnante. Lui non stroncava mai nessuno; quello, è un compito della vita, diceva. Posso arrischiarmi a dire che sono tante le cose che si imparano leggendo “Il mestiere di scrivere” e una di queste è la compassione. O dovrei dire pietà.
L’accostarsi agli altri con enorme umiltà, prestargli sempre attenzione e ascolto. Incoraggiare, sempre. Non per arrivare a produrre degli scrittori di serie: non è successo, non accadrà.
Bensì per aiutare. Per condividere con gli altri quel poco o tanto che si è ricevuto.
Al termine del libro (più o meno 150 pagine), ci sono degli esercizi di scrittura creativa. Brevi: offrono uno spunto, e un riferimento nell’opera di Carver.
Posso quasi esagerare e affermare con forza che se si acquista questo, e lo si legge almeno un paio di volte, si ha un’idea più definita di cosa nasconda la parola “scrittura”.