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Il nastro dei ritardi

Da Bitmag

 

Contandole, ci voglio ventisei ore esatte a percorrere la distanza di quasi diecimila chilometri che separa
l’Italia dallo stato americano dell’Arizona. Di queste ventisei ore, almeno diciotto è facile passarle su degli
aerei, in media tre.
In molti conoscono questo tipo di viaggi. Nell’epoca del libero mercato, molte aziende fanno affari con
l’estero e l’oceano non spaventa più le compagnie aeree che quotidianamente trasportano persone da un
capo all’altro del mondo. Così si viaggia avanti e indietro di continuo a bordo di velivoli più o meno grandi
per raggiungere, chi un meeting di lavoro, chi un’agognata meta per le vacanze.
Non è poi così improbabile che durante queste lunghe traversate, durante le quali spesso le variabili non
sono solo climatiche ma anche di fuso orario, si incappi in ostacoli vari che vanno da un semplice ritardo ad
uno smarrimento di bagaglio e via dicendo.
Quello che però credo accomuni tutti i viaggiatori, sia quelli scelti che quelli forzati, sia la bella sensazione
che si prova nell’approdare di nuovo a casa, nel proprio paese, dove tutto a partire dalla lingua ci è
familiare. Ci si sente sempre un po’ più al sicuro nello sbarcare alla fine di un lungo viaggio nell’aeroporto
dal quale si era partiti. Si passa rapidamente per la dogana esibendo un documento che si sa per certo
essere valido e ci si dirige sicuri verso il nastro numerato sul quale, in breve tempo, scivolerà il nostro
bagaglio pronto per essere riportato a casa.
A volte però capita che il rientro in patria non sia così semplice e fluido. Ci si può imbattere in un ostacolo
imprevisto che ci fa pensare che per quanto si conosca il proprio paese, certe cose andrebbero davvero
riviste.
Il quindici gennaio di quest’anno, partendo dall’aeroporto di Tucson per far ritorno a casa mi capitò di
scoprire che l’agenzia con al quale avevo prenotato il mio biglietto su internet aveva riservato il terzo ed
ultimo volo della tratta da un aeroporto diverso da quello in cui sarei arrivato a New York.
Mi venne detto che arrivato a La Guardia, uno degli aeroporti dell’area newyorkese, avrei dovuto cercare
un mezzo quanto più rapido possibile per arrivare al relativamente vicino aeroporto di Newark dal quale
con sole tre ore di distanza sarebbe partito il volo intercontinentale che mi avrebbe riportato a Roma.
Sembrava un’impresa quasi impossibile finché, arrivato a La Guardia, chiesi ad un addetto dell’aeroporto
il quale, con spedita semplicità, mi fece salire su un autobus che in poco meno di un’ora mi condusse fino
in centro a New York, e dopo aver caricato altri passeggeri all’aeroporto di Newark. Nella confusa ansia del
non far tardi mi ritrovai con un paio d’ore di anticipo al check-in del volo che avrei, tutto sommato, dovuto
perdere.
A quel punto mi sentii legittimato a pensare che il grosso del viaggio era bello e fatto. Ora si trattava di
attendere con pazienza che quel Boeing 747 mi riconducesse a casa dove avrei fatto una sana dormita.
Purtroppo all’arrivo a Roma, qualcosa andò storto e insieme a buona parte dei passeggeri del mio stesso
volo, mi ritrovai bloccato a fissare un nastro vuoto dal quale sarebbero dovuti scendere i nostri bagagli.
Passarono due ore intere, durante le quali tentammo di chiedere informazioni a improbabili addetti che
dopo averci promesso di risolvere il tutto, puntualmente sparivano. In quelle due ore sul nostro stesso
nastro passarono i bagagli di altri due voli in arrivo a Fiumicino. Chiedemmo informazioni alla compagnia
americana che operava il volo e quelli risposero che non era compito loro occuparsi dei bagagli in arrivo e
che avremmo dovuto, invece, chiedere a qualche addetto italiano.
Dopo due ore i bagagli spuntarono dal nastro senza che nessuno fosse venuto a dirci nulla sull’accaduto.
Si risolse tutto con uno strano senso di amarezza che accompagnava il ritorno a casa degli italiani presenti
su quel volo e l’arrivo a Roma degli ospiti americani.
Non era proprio in questo modo che immaginavo un ritorno a casa, soprattutto dopo essere sopravvissuto ad un repentino cambio di aeroporti a New York.
Insomma, non mi sento particolarmente cattivo o critico nel dire che al nostro bel paese mancano ancora
delle funzionalità organizzative per paragonarsi al resto dei paesi sviluppati dell’occidente. Eppure
basterebbe poco, suppongo.
Nicola Paccagnani



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