Per negare Dio bisogna negare l’uomo e la sua eccezionalità. E’ questo, come abbiamo già sottolineato, uno dei dogmi dell’ateismo moderno che ancora persiste nonostante il fallimento del positivismo scientista. L’uomo definito come un “nient’altro che”, perché l’ammissione di una sua eccezionalità e di una diversità qualitativa e ontologica rispetto al resto dell’ambiente naturale richiederebbe una giustificazione poco gradita a chi nega che l’essere umano sia il frutto di un Pensiero razionale.
Se fino a ieri questo tentativo era portato avanti da darwinisti e neodarwinisti, pensiamo a Richard Dawkins, oggi il compito è stato affidato ai neuroscienziati. L’evoluzione e la teoria di Darwin, se non vengono strumentalizzate, non hanno alcun contrasto con i contenuti della fede cristiana ma semmai risultano incompatibili con il naturalismo. Per questo oggi gli anti-teisti puntano sui neuroscienziati: a loro il compito di dover dimostrare che il libero arbitrio è un’illusione, che la coscienza è un epifenomeno del cervello, che la mente è semplicemente (termine classico del riduzionismo) un “fascio di neuroni”, secondo le affermazioni di Francis Crick.
«Coloro che ritengono, in maniera riduzionistica, che il cervello produca solamente impulsi elettrochimici e questi automaticamente si traducano poi in decisioni operative, tendono a ritenere che la libertà non esiste, in quanto tutto dovrebbe essere predeterminato», ha spiegato Sergio Barbieri, neurologo e direttore di “U.O. Neurofisiopatologia” al Policlinico di Milano. «In realtà, ultimamente, anche questo tipo di approccio è stato abbastanza contestato, fortunatamente». Secondo Mauro Ceroni, docente e ricercatore universitario in Neurologia presso l’Università di Pavia, che l’uomo sia il suo cervello «non ha nulla di scientifico». E’ ovvio che «nulla può accadere in me che non abbia una base fisiologica, che non implichi un’attivazione dei circuiti nervosi, ma ciò non significa affatto che tutto sia riconducibile al mio cervello».
In questi giorni “La Stampa” ha intervistato Timothy Shallice, matematico e professore di neuropsicologia e coordinatore del settore di neuroscienze cognitive della Scuola internazionale superiore di studi Avanzati (Sissa) di Trieste, vincitore del «Premio Mente e Cervello 2013» assegnato dal rettore dell’Università di Torino. Ha spiegato: «Le neuroscienze cognitive permettono di indagare oltre la materia organica, là dove la mente, e quindi qualcosa di non afferrabile come il prodotto dei neuroni, agisce dal e sul corpo in un complesso gioco di circuiti e percorsi, spalancandosi sui “teatri” in cui si svolgono le trame delle malattie». Studiare le lesioni e trovarne i motivi non significa comprendere l’origine di tali “funzioni”, «abbiamo soltanto un disegno parziale della causa». E ancora: «Individuando la lesione che riteniamo potenzialmente responsabile di questi disturbi, ci siamo accorti che il problema non è sempre e semplicemente in cause meccaniche, ma è dovuto a sistemi molto più complessi e dinamici che gestiscono, nel caso specifico, la memoria, ma che non sono soltanto di tipo organico: abbiamo a che fare con funzionamenti mentali che le macchine ancora non tracciano». E oltretutto si scopre che «questa macchina computazionale che è il cervello è diversa da persona a persona».
Proprio il mese scorso Massimo Gandolfini, primario neurochirurgo, ha analizzato nel suo libro “I Volti della coscienza“ (Cantagalli 2013) i rapporti mente-cervello alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, tenendo presente un dibattito filosofico e teologico secolare. Sempre in questi giorni un neurologo e due neuroscienziati, Mauro Ceroni, Faustino Savoldi e Luca Vanzago, hanno pubblicato “La coscienza” (Edizioni Aras 2013), frutto della lettura della maggior parte delle pubblicazioni sul tema negli ultimi 30 anni e di una dimestichezza coi temi filosofici sull’argomento, un’opera che difende l’uomo da «ogni riduzione della propria persona».
La redazione