di Sara Brzuszkiewicz
A metà febbraio il Libano ha assistito alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale, dieci mesi dopo le dimissioni del Primo Ministro Najib Miqati. Sebbene la svolta rappresenti un indubbio passo avanti di cui il sempre più instabile Paese necessitava da tempo, i presupposti su cui nasce la nuova compagine governativa non lasciano spazio all’ottimismo.
L’annuncio della nascita dell’Esecutivo giunge dopo anni estremamente travagliati per la politica libanese. Nel marzo del 2013 il governo di Miqati si era dimesso dopo che le tensioni tra gli opposti schieramenti si erano fatte insostenibili e furono allora motivate dal fallimento di un accordo su una nuova legge elettorale per le consultazioni che si sarebbero dovute svolgere nel mese di giugno (il gruppo sciita di Hezbollah, in particolare, aveva bocciato la creazione di un organismo di controllo sulle consultazioni) e dalla mancata estensione del mandato del Capo delle Forze di Sicurezza interne, Ashraf Rifi, ritenuto vicino alle posizioni dei ribelli siriani. In realtà lo scontro durava da quando il governo ancora precedente del Primo Ministro sunnita Saad Hariri venne fatto cadere nel gennaio 2011 a seguito delle dimissioni dei Ministri appartenenti ad Hezbollah, che agirono in questo modo in segno di protesta per il fatto che i procuratori del Tribunale Speciale per il Libano – istituito allo scopo di assicurare alla giustizia i reali assassini del padre di Saad, Rafiq Hariri, ucciso il 14 febbraio 2005 – non facevano mistero di considerare lo stesso “Partito di Dio” una forza coinvolta nell’attentato.
La situazione nel corso degli anni si è dunque incancrenita su una logica di crescente ostilità bipolare. Da un lato, Saad Hariri guida l’“Alleanza 14 marzo”, una coalizione di partiti politici e di forze indipendenti nata nel 2005 su una comune opposizione al regime siriano di Bashar al-Assad. La formazione sunnita Tayyar al-Mustaqbal (Corrente del Futuro) di Hariri ne è la forza principale. Dall’altro, acquista rilievo l’“Alleanza 8 marzo”, a maggioranza sciita. Essa nacque l’8 marzo 2005 dopo alcune manifestazioni a Beirut in risposta alla cosiddetta Rivoluzione dei Cedri. La discesa in piazza aveva avuto lo scopo primario di manifestare supporto e gratitudine al regime siriano di Assad per aver contribuito a porre fine alla guerra civile in Libano e per aver supportato la resistenza libanese contro l’occupazione israeliana. Composta da vari gruppi e movimenti tradizionalmente vicini all’orientamento damasceno, Miqati, ultima volta Premier tra il gennaio 2011 ed il marzo 2013, appunto, e conosciuto come un pro-siriano moderato, ne era un rappresentante di spicco.
In tale intricato scenario risulta dunque evidente come ciò che da più parti viene definito spill-over della crisi siriana in Libano, termine con il quale si indicano gli effetti che la guerra oltreconfine ha innescato nel Paese, non sia affatto un fenomeno nuovo e debba invece essere ricondotto ai destini storici di due Stati da tempo inscindibilmente connessi.
Nell’instabilità crescente, a metà febbraio Tammam Salam, Premier incaricato da più di dieci mesi, è riuscito comunque ad annunciare la nuova compagine di governo, che apparentemente mette d’accordo il potente blocco a schiacciante maggioranza sciita dell’Alleanza 8 marzo con quello facente riferimento a Saad Hariri. Un primo punto d’incontro si è trovato con la suddivisione degli incarichi in parti uguali tra cristiani e musulmani. Per quanto riguarda l’ulteriore divisione tra musulmani sciiti e sunniti e, in riferimento alla Siria, tra gli sciiti e la maggioranza dei fedeli di tutte le altre confessioni presenti in Libano, essa è stata invece affrontata con gli occhi oltreconfine.
Le antitetiche posizioni circa la Siria avevano infatti portato gli incidenti tra sostenitori e oppositori del regime siriano a moltiplicarsi negli ultimi mesi del 2013, sebbene nei dintorni di Tripoli alcuni scontri si fossero verificati già nell’anno precedente. Con un’ondata di attentati esplosivi rivendicati o attribuiti in egual misura a Hezbollah o a gruppi ad esso vicini da un lato e a sostenitori dei combattenti anti-Assad dall’altro, la situazione si era poi aggravata con l’ingresso ufficiale in Siria di Hezbollah a fianco di Assad a metà 2013.
L’obiettivo primario del nuovo governo è dunque quello di arginare la “deriva siriana” all’interno del Paese, ed una delle iniziative in tal senso dovrà essere quella di arrivare alle elezioni presidenziali prima che il mandato dell’attuale Capo di Stato Michel Suleiman scada a maggio, nonché a quelle parlamentari previste già per il giugno 2013 e, come si accennava, rimandate.
I motivi per essere pessimisti circa la tenuta del nuovo governo sono tuttavia significativi. Innanzitutto, la compagine governativa è stata formata quasi esclusivamente guardando alla Siria. Se è inevitabile che la crisi oltreconfine influenzi la politica libanese, formare un governo di unità nazionale tra sostenitori e oppositori di Assad continua a sembrare una contraddizione di fondo. Secondariamente, è proprio il modo con il quale si è cercato di risolvere tale contraddizione a rendere ancor più leciti i dubbi circa la reale potenzialità di questo governo. Almeno in politica estera, ovvero ancora una volta soprattutto in riferimento alla Siria, è come se, anziché la formazione di un nuovo governo, sia stata sancita la presenza di due governi paralleli: si è infatti stabilito che i due maggiori schieramenti non abbiano diritto di veto circa le iniziative dell’altro.
Se le componenti sunnite e cristiane hanno dichiarato formalmente neutralità, tale presupposto amplia invece la legittimità dell’intervento di Hezbollah in Siria e, come conseguenza di questo, il potenziale rischio di rappresaglie e di attentati dei gruppi sunniti sostenitori dei ribelli siriani in Libano. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo l’aviazione governativa siriana ha infatti già compiuto alcuni raid in territorio libanese per colpire zone solidali con i ribelli e sui corridoi attraverso i quali transitano armi e uomini destinati agli insorti siriani, in particolare nella Valle di Beqa’, nel nord-est del Libano, vicino al confine.
Oltre all’instabilità crescente ed al rischio di scontri interconfessionali, ulteriore ben nota conseguenza della crisi siriana in Libano è la sempre più delicata emergenza profughi. Nonostante la fragilità dei presupposti con i quali si è pervenuti all’attuale governo e le incognite circa le possibilità in suo possesso di frenare il contagio siriano, è tuttavia auspicabile che esso possa giocare un ruolo maggiore nella questione dei rifugiati.
I Siriani in Libano sono oggi oltre 900.000, ma è probabile che molti individui non siano ancora stati censiti. A questo si aggiunga il fatto che la maggioranza dei rifugiati stanziati nel Libano settentrionale vivono nei campi, mentre la maggioranza di quelli nel Sud del Paese alloggiano in case all’interno di villaggi e cittadine. Ciò sembrerebbe un fattore positivo per i rifugiati nella zona meridionale, se non fosse che proprio in alcune aree del sud è concentrata un’alta percentuale di popolazione sciita sostenitrice di Assad, con evidenti problemi di convivenza che da questo stato di cose scaturiscono.
Nonostante il nuovo governo, gli ultimi mesi hanno confermato che il Paese dei Cedri rappresenta ancora l’anello politicamente più debole tra gli Stati limitrofi alla Siria. Un’ottica lungimirante e consapevole delle relazioni soggiacenti agli eventi nelle singole nazioni della regione risulterà necessaria tanto nel Paese quanto a livello internazionale per comprendere che ogni sforzo verso la stabilità del Libano potrebbe diventare un passo verso una maggiore stabilità dell’intera area.
* Sara Brzuszkiewicz è Dottoressa in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale (Università di Milano)
Photo credits: Mohamed Azakir/Reuters
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