Da ragazzo sedevo per lunghe orenell’aranceto di mia nonna dello zencon gli occhi incavati a fissare il cancelloe c’era – ricordo – oltre che il porco ancheun cane legato a un filo di ferro che correvalungo il sentiero che dal cancello portavaqui al fico e al casolare, e dietro c’era il pollaioin attesa che apparisse, spingendo il fantasmain avanti, il mio oggetto a e subito dopoil corpo steso su un letto che qui c’era non si sada quanti lustri senza che ci fossero stateestasi del pensiero, senza che mai una donnagodesse del gaudio in cui la propria vitaebbe il nome e mai il mio sguardo si fermòsugli uomini e sulle donne che si nascondevanoin quel mulino insieme a cani, asini e gatti eanche scimmie e uccelli rapaci aspettandol’uscita delle loro animecosì da poter vederecome vivono e per che cosa,e perché continuano così alacrementea strisciare e a immettere cavalli e altrebestie nell’aranceto di mia nonna dello zenlungo la carrareccia, se vado un po’ fuoria pisciar nella conduttura dell’acqua cheporta al mulino e dio sa quante volte avreisolo voluto eiaculare nel cielo del mondoe non sull’erba tra gli aranci di mia nonna
e per bucare l’acqua, il corpo morbido e pieno guardandoti dietrola nuca, le spalle, che si è piantato e non può toccarsie tra terra, erba e legno e questa luce che sa di vetrola piega del podice dentro i jeans che sai portare tra membrae giunture, e picciune ‘mpracchjatu, l’occhio non è sdraiato quando si è più a sud col meridiano e più in alto rispetto al livello del mare quando anche in superficie è lo sguardo che schipiciu come l’eclittica sale lungo il tuo petto che ha mântici enormi e limiti caldicome una notte d’amore du marcǔne che dura sicura e dolcesino all’alba cu rusticu docile e gruossu nella fessuradel giorno che abbraccia e ha tenera e madida la carnee il tuo culo così tenero legno e il pelo profondo tutto impracchjato di wenza togache sotto le dita è una lunga distanza lucenteun parallelo senza misura mentre ‘a rarica ‘i filicein questa nera frescura scorrente si tiene mischiataal concime al sapore di sasso, alla linea del palo su cuirovesciata fino al ventre tutto si rovescia ancora di piùtra cunnu e bucu du culu ‘a sita delle tue mutandeche sembra vento per come è intrisa di spermae di kama salila di tufèra,ma quidi fronte non c’è Torre Mellaro e più in là Cavalierein quella altezza di 1405 metri sospesi sopra la minchiacolavano sul luogo, sull’erba sperma e miele di femminache si immergevano nell’azzurro e nel verdeciascuno fatto di legno e carne, fica e culoquasi indiscernibili, tanto che il senso si mangiavanella controra e faceva eco al suono vento a casoal prato con la merda di vacca, al legnobagnato su cui stavi seduta forgiando u ddrugu,qui legando l’attesa o la forma sospesa sopra la lineadel vuoto da un bordo all’altro dell’asse di legnoverso la mano che altro non tocca più u cannitu ‘mpracchjato probabilmente il tatto sarebbe scivolato in questo gesto così tondo e lubrico tanto che con il sole alla tua sinistra la linea che fisserà la serail porco, il cane e l’estate che è da tempo che svaniscespogliandoti , o semplicemente abbassandoti i jeans,sulla staccionata come del tuo nome cheessendo di legno entra nella frescura erigirandoti in modo che piegata sulla perticaruotando nell’ombra che di traverso taglial’orizzonte del culo, così cambiando l’ordinescambiando l’attesa in offerta protesa tantoche la minchia gonfia questa anima delcannone di qua e di là a fondo valleenormi steri ammucchiati di escrementisolidi e scuri nell’aranceto di Mia Nonnasparando bordate di wenza togasul verde della tua wima questo abbia primadella sera l’ombra piatta del bagnato el’azzurro dei cavalcanti soffochi tra peli e sborranella macchia madida che cola o stillasui bbalbuselli e si spande fino a che arrotondii tratti obliqui dei trenta gradi prima del tramontoriga che ha succhi, acqua, rami del verde,šcumadi proffia sul legno su cui sfreghil’odore pieno la scrittura della tua tuféra inzuppataintanto che – lo si vede – vorremmo che ci fossela bocca di fuoco di un cannone Parrottil giunto, il buco, la bordata ca ti allenzutra la superficie del verde e l’articolazione di stâmparéllilo gnomone del proprio indignato e il sentiero di wenza pisciatae miele ch’ampracchja che in fondo costeggiail sentiero lungo il quale appeso al filo si muovevaabbaiandomi il cane, ed ero ancora un ragazzoe avevamo un bel porco da scannare e anche gallinee uova e l’asse dei solstizi tra est ed ovest su questa alta lineache in montagna allontana e rende più profonda la seratanto che lascia vedere il giorno fino al grigiocurvo sul legno dove poggiavi u culu c’è anche qui il pesounto del tuo grišo(w)u sulla siepe su questa lineache fa collimare l’azzurro del podice e la pastura verde di minne grânnare e tese contro il cieloche tagliando sole e i cumuli di limusa di murfusunee pozze di sperma e allenza laggiù dove il ventolargo ha il sapore di lampo, ‘a petra du truonu, e l’erba balzatra timpano e olfatto brusio e odore denso di cacazzapelle che è scorza e legno, chignju grânnaru e culo, labbrae capocchia, pallânti e sperma, topinaru e rârica i filice,dove tutto scende per gradi lontano dal tramontoanche se – dice la verità il poeta - il porco , il cane e l’estate che – adesso che il poeta non è più un ragazzo,- è da tempo che sono svaniti e la montagna che premeva e poggiava il tuo culoda tutte le parti mischiato di bestie e gambi è spaccato sulla linea che andava salendo cadeva all’orizzonte intanto che le folle camminavano e tornavano e chi era salito lassù supr’a spaccusascendeva e tornava ridendo alla città dove tuttosi richiudeva tra le tue gambe e la camicetta aperta
e l’estate che è da tempo che ogni estate svanisce sempre più
&da : Se fosse l’antologia di mia nonna dello zen e dell’aranceto occupato dai cavalli degli zingari
Il poeta -indiano