Il ragazzo selvatico è un libricino sottile ma denso.
L’ho finito in pochi giorni ma sono tanti quelli che ho lasciato passare prima di scrivere le mie impressioni. Il grumo di emozioni che mi ha provocato non si è ancora diluito: è rimasto un ammasso confuso di suggestioni, ricordi, pensieri e riflessioni.
Sarà che parla di montagna e da poco ho riscoperto quanto io ne sia innamorata.
Sarà che l’autore ha un’età molto prossima alla mia e lo sento terribilmente vicino nelle sue debolezze e solitudini, nella continua ricerca di se stessi, partita da bambini e ancora in corso.
Sarà che me l’ha consigliato una persona speciale e leggendolo pareva l’avesse scritto lui.
Fatto sta che non so più se quelle impressioni e quelle domande che mi ha suscitato la lettura siano mie o loro. Se le ho riconosciute o solo assimilate.
E’ una sensazione così intima che mi chiedo cosa hanno provato gli altri lettori.
Il romanzo, anzi, il quaderno di montagna, in sè è semplice: parla di un periodo difficile dell’autore che dopo il successo del suo ultimo libro si sente svuotato, in preda al cosiddetto blocco dello scrittore. Per ritrovare l’ispirazione, ma soprattutto se stesso, inizia un eremitaggio in una baita sulle montagne della Valle d’Aosta. Cerca la solitudine, vuole dimostrare a se stesso di essere uomo, di riuscire a farcela da solo. Una prova. Circondato dai boschi, dai selvatici, dalle montagne, sperimenta un ritmo nuovo. Osserva, legge, pensa. Studia la natura. La sua solitudine non riesce però ad essere totale e scopre due persone: non sono semplici incontri ma la costruzione di nuovi affetti.
Paolo Cognetti scrive nel suo blog:
… dopo tre anni e diverse rielaborazioni, il libro ha finito naturalmente per essere un libro su di me. Questo mi imbarazza molto. Uno scrittore dovrebbe coltivare la timidezza, scomparire dentro le sue storie. Deporre le armi della narrativa e dire io, confessandosi a un pubblico di sconosciuti, più che un gesto di coraggio mi sembra un grave peccato di narcisismo. Per questo ho provato a dar voce a un io schivo, come i miei amici montanari: ho eliminato gli specchi di casa e passato molto tempo alla finestra, pur sapendo che scrivere di alberi e animali era un altro modo per scrivere di me, solo nascondendomi nel larice caduto, nella volpe che di notte viene in cerca di cibo, nei ruderi infestati dalle ortiche, nei laghetti d’alta quota e negli ultimi nevai d’agosto. Poi a volte ci sono stato costretto, a dire io. Sono stati i capitoli più penosi, come quei pendii ripidi e brulli che non danno alcun piacere, e li risali a passo lungo e testa bassa per superarli il prima possibile. Scrivendoli mi veniva da chiedere scusa. E mi sono sentito molto meglio quando infine il sentiero ha svoltato e ho potuto tornare a descrivere i suoni del bosco, i gesti di un amico.
Come si fa a non amare una persona simile? Qualche tempo fa si disquisiva sul rapporto tra l’autore e la sua opera: si può amare la seconda pur disprezzando il primo? Per me una simile dicotomia non è possibile: autore e opera sono una cosa sola e spesso se non mi piace un libro non mi piace nemmeno il suo scrittore. Sarà per quello che più che libri preferiti ho scrittori preferiti. Il ragazzo selvatico mi è piaciuto molto, ora sono curiosa di leggere anche gli altri libri di Cognetti, anche se saranno molto diversi da questo. E aspetto di tornare presto alle mie montagne, diventate ormai una calamita per i pensieri e il cuore, dove l’animo si allarga e il respiro si fa più profondo.
Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna di Paolo Cognetti, Terre di mezzo editore, 2013, 99 pagine.