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Il ritorno degli Stati Uniti in Medio Oriente? Il dibattito elettorale

Creato il 31 ottobre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Luca Barana

Il ritorno degli Stati Uniti in Medio Oriente? Il dibattito elettorale
La campagna elettorale negli Stati Uniti, sinora dominata dai temi economici e fiscali, ha conosciuto un andamento inatteso nelle ultime settimane precedenti al voto. I tre dibattiti televisivi fra i due candidati, il Presidente uscente Barack Obama e l’ex governatore del Massachussetts Mitt Romney, hanno segnato – in particolare il primo svoltosi il 3 ottobre a Denver – il ritorno in corsa del concorrente repubblicano, la cui sconfitta appariva ai più inevitabile. Il fattore determinante nell’indebolimento nella posizione di Obama è da identificarsi nella dimessa performance del Presidente a Denver e nella successiva amplificazione dell’accaduto da parte dei media americani e internazionali.

Tuttavia, il Presidente ha dovuto affrontare, a poco meno di due mesi dal voto, anche alcuni ostacoli nel campo in cui gli si riconosce un vantaggio sostanziale rispetto all’avversario: la politica estera. La morte dell’ambasciatore americano Chris Stevens in Libia l’11 settembre, insieme ad altri tre cittadini statunitensi, ha gettato alcune ombre sulla gestione della politica estera ad opera dell’amministrazione uscente, riportando i temi delle relazioni estere degli States se non al centro del dibattito elettorale, quantomeno all’attenzione dell’elettorato americano, come dimostrano anche l’inaspettata importanza riconosciuta all’ultimo dibattito che verteva appunto sulla politica estera e la soddisfazione del team elettorale del Presidente per il riconoscimento della sua affermazione in tale occasione.

Al centro del dibattito è stata posta innanzitutto la gestione della difficile regione del Medio Oriente, ricordando come gli Stati Uniti, nonostante il nuovo bilanciamento verso il Pacifico voluto dall’Amministrazione Obama, siano ancora pienamente coinvolti in tale contesto, come dimostrano i recenti eventi in Libia, le rinnovate indiscrezioni su nuovi contatti diplomatici con Teheran, la sanguinosa guerra civile in Siria e il sempre delicato rapporto con Israele. Tale attenzione discende anche dalla constatazione che ormai il ‘Medio Oriente’, nel discorso pubblico americano definisce un’ampia gamma di territori, che vanno dai confini dell’Africa sub-sahariana all’Afghanistan, comprendendo regimi differenti e criticità strategiche molto varie.

In effetti, i temi principali del dibattito appaiono essere stati, al di là dell’onnipresente relazione con la Cina, la gestione della crisi in Libia di settembre, l’argomento con cui il moderatore Bob Schieffer ha inaugurato il dibattito, e la gestione dei rapporti con Iran e Israele, non a caso due attori fondamentali della regione mediorientale. Sul primo aspetto la critica di Romney all’operato dell’amministrazione è stata molto sonora, in occasione del dibattito – quando ha accusato Obama di non aver definito l’accaduto in quanto attacco terroristico – e nelle settimane seguenti i fatti di Bengasi, tanto da attirare le critiche bipartisan all’indomani della sua conferenza stampa a riguardo. Su altri temi invece non sono mancati spunti di convergenza fra le posizioni dei due candidati, a dimostrazione della consolidata bipartizanship che per larghi tratti della storia americana ha contraddistinto la gestione della politica estera.

Tale bipartizanship si esplicita nel sostanziale accordo fra i due candidati circa il supporto americano ai movimenti democratici della Primavera Araba, la decisa chiamata alla destituzione di Bashar al-Assad e l’opposizione alle ambizioni nucleari di Teheran. Dal punto di vista di Washington queste sono posizioni irrinunciabili, che non possono divenire materia di scontro elettorale, non dopo che l’esperienza dell’Amministrazione Bush aveva minato alla base la consolidata convergenza fra i due principali partiti. Romney, tuttavia, non ha mancato di criticare le scelte dell’amministrazione uscente, di cui ha comunque voluto riconoscere il merito di aver sferrato un duro colpo al terrorismo internazionale ottenendo la morte di Osama bin Laden. Una mossa elettorale obbligata, quella del candidato repubblicano, che tuttavia ha voluto dimostrare di non essere l’aspirante Presidente sprovveduto e privo di una dottrina di politica estera dipinto spesso dalle cronache.

L’attacco di Romney si rivolge dunque a più aspetti della politica mediorientale di Obama, criticandone la mancanza di decisione e l’accentuata debolezza mostrata dal Presidente. Riguardo la gestione della nuova situazione politica generatasi a seguito della Primavera Araba, la proposta politica di Romney mostra di distanziarsi da quella dall’Amministrazione Obama circa le modalità con cui il sostegno ai movimenti democratici verrebbe fornito e l’approccio nei confronti dei partiti islamisti al governo oggi in Tunisia e, soprattutto, Egitto.

La scelta di Obama di appoggiare il risultato delle elezioni egiziane, che hanno portato al governo il partito islamico dei Fratelli Musulmani, ha costituito in effetti una rottura significativa rispetto alla linea politica delle precedenti amministrazioni, le quali avevano sempre considerato il regime di Mubarak come un necessario argine contro l’instabilità regionale e contro le derive islamiste. Romney mette quindi in guardia circa le infiltrazioni di forza politiche jihadiste e legate a Teheran che starebbero cercando di influenzare le nuove e fragili democrazie in Medio Oriente. Dunque, il candidato repubblicano propone un più esplicito sostegno ai movimenti che “stanno tentando di introdurre valori democratici duraturi” in Paesi i cui sistemi politici sono rimasti “chiusi” troppo a lungo. Tale risultato sarà raggiunto tramite una maggiore assistenza tecnica e il lancio di una conferenza internazionale che si occupi non solo della stabilità regionale, ma anche di sviluppo economico. Il programma di Romney dichiara poi esplicitamente di porre come condizione per il sostegno militare americano al nuovo governo egiziano guidato da Mohammed Mursi il rispetto dell’accordo di pace con Israele da parte del Cairo. Simili forme di condizionalità sono previste anche per l’assistenza economica proveniente da Washington. Infine, appare necessaria la riforma dell’apparato diplomatico statunitense. La proposta è quella di sostituire l’odierno sistema fondato su degli ‘inviati speciali’ ad hoc con un regional director che possa gestire simultaneamente le varie dimensioni della complessità mediorientale, fra le quali la lotta al terrorismo internazionale.

Lo stesso Obama, pur abbandonando la retorica aggressiva della ‘War on Terror’, non ha certamente rinnegato la lotta al terrorismo internazionale, intensificando la caccia ai principali esponenti dei movimenti islamisti e attuando la scelta strategica di accentuare l’utilizzo dei droni in zone calde quali il Pakistan e lo Yemen, riducendo così il coinvolgimento di soldati americani e promettendo la conclusione dei conflitti in Iraq e Afghanistan entro tempi certi. Non a caso, il ritiro dai due teatri di guerra asiatici costituisce uno dei maggiori asset elettorali di Obama. A questo riguardo, la posizione del candidato repubblicano è alquanto complessa. Da un lato, infatti, Romney dipinge la politica dell’Amministrazione come rinunciataria e le attribuisce l’indebolimento della posizione degli Stati Uniti nel mondo; dall’altro, non può appellarsi a un approccio eccessivamente interventista, che risuonerebbe famigliare ad un elettorato americano prostrato dopo un decennio di guerre al terrorismo dagli elevati costi umani e finanziari. Appiattirsi sulle posizioni dell’Amministrazione Bush non è un percorso percorribile da Romney.

Un simile dilemma si pone in relazione alla situazione in Siria. Romney attacca la scarsa capacità del Presidente di incidere sul contesto siriano, ma allo stesso tempo da commander in chief non potrebbe permettersi di lanciare una nuova campagna militare. Da qui discende anche l’atteggiamento tutto sommato conciliante del candidato repubblicano nei confronti delle scelte strategiche di Obama sulla Libia, fra le quali Romney critica la gestione del post-Gheddafi più che il sostegno indiretto, ma vincente, alle forze che si erano ribellate al regime.

Riguardo la Siria, la tattica di Obama sin dall’inizio del conflitto si è basata sul tentativo di ottenere una risoluzione di condanna nei confronti del regime di Assad, tentativi che però sono stati bloccati dal veto di Russia e Cina, non più disponibili a riporre fiducia nella buona fede dell’Occidente, dopo che la loro astensione sulla risoluzione riguardo la Libia aveva portato ad azioni che andavano ben oltre il mandato accordato dal Consiglio di Sicurezza nelle intenzioni di Mosca e Pechino. Rievocando la tradizionale diffidenza degli States nei confronti delle istituzioni internazionali, proprio tale scelta di fondo dell’Amministrazione Obama è criticata da Romney, che parla apertamente di un errato outsourcing all’ONU della leadership nella crisi siriana da parte degli Stati Uniti. Romney attacca l’appoggio di Obama al piano Annan, rivelatosi debole e per di più inapplicato, come un sintomo dell’assenza di una reale politica siriana da parte dell’Amministrazione.

L’alternativa sarebbe costituita da un piano in tre fasi con cui un’eventuale Amministrazione Romney mirerebbe alla caduta del dittatore siriano, partendo da un irrigidimento delle sanzioni nei confronti della Siria. La seconda fase riguarderebbe un rapporto più serrato con gli oppositori interni ed esterni del regime, come alcuni Stati del Golfo che stanno fornendo sostegno finanziario alle forze d’opposizione con il fine di garantire la sicurezza delle armi di distruzione di massa in possesso di Damasco, considerate la principale minaccia per la stabilità regionale. Infine, l’ultima fase comporterebbe la consegna di armamenti ai gruppi di opposizione “responsabili”.

Da questa sintetica analisi emerge la rinnovata importanza del contesto mediorientale per la potenza americana, che pareva essere pronta per un più drastico bilanciamento verso il Pacifico. In effetti, un diverso approccio strategico è stato promosso dal Presidente Obama, ma gli eventi degli ultimi due anni hanno ricordato a Washington la centralità di una regione che ormai non può più essere interpretata esclusivamente alla luce del conflitto israeliano-palestinese. Anche questo aspetto è stato argomento di confronto, dato che Romney si è detto contrario alle critiche di Obama nei confronti della politica israeliana degli insediamenti, ma in generale il sostegno da Israele non pare essere posto in discussione dall’amministrazione uscente.

Il ritorno degli Stati Uniti in Medio Oriente? Il dibattito elettorale
I rapporti con Israele, anche in relazione al dossier iraniano, sono stati oggetti del nostro colloquio con Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera e profondo conoscitore della realtà medio orientale, presso il Festival di Internazionale di Ferrara, a latere della presentazione del libro a vignette “Il mio migliore nemico. Storia delle relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente”, a cura di Jean-Pierre Filiu e David B. In questa occasione è anche emersa la questione dell’equilibrio fra il nuovo corso della politica estera americana orientato al Pacifico, promosso dall’Amministrazione Obama, e il costante richiamo del Medio Oriente. Un richiamo reso esplicito dalla performance del Primo Ministro israeliano Netanyahu di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre. In tale occasione, Netanyahu ha mostrato perché, forse, Israele si è trasformato in un alleato scomodo per l’Amministrazione Obama, a causa delle continue pressioni per un eventuale intervento in Iran, che nemmeno un’amministrazione repubblicana probabilmente avvallerebbe in questo momento.

A tal proposito, Antonio Ferrari sostiene che:

Gli Stati Uniti hanno a cuore oggi molto l’Oriente, ma è vero che hanno anche interessi forti in Medio Oriente che non potranno mai passare in secondo piano. È evidente, tuttavia, che ad Obama Netanyahu non piace e viceversa e ciò che noi sappiamo, al di là di quello che si scrive e che si legge, è che le frizioni sono state forti. Tra l’altro Obama, che si distingue per una sua limpidezza, è un uomo che non nasconde ciò che pensa, come si è d’altra parte visto nei rapporti con l’Italia. È vero anche che Netanyahu è andato a New York per tenere consultazioni su queste questioni e che Obama sembra non abbia voluto riceverlo adducendo che il protocollo non lo prevedeva; però il vero behind della faccenda è che alla fine Netanyahu non ha più parlato di attacco all’Iran nell’immediato, ma ha parlato di eventualità di attacco nei confronti di Teheran in una fase successiva. Tutto questo significa che su questo nodo hanno vinto gli Americani: Israele può continuare a provocare l’Iran e Netanyahu può continuare su questa linea di intransigenza – probabilmente anche per non parlare della questione palestinese o dei suoi grossi problemi interni –, ma la realtà è che Israele non può assumere nessuna iniziativa senza la ferma convinzione di un effettivo sostegno degli USA”.

La situazione odierna non sarebbe comunque nuova:

Si pensi, infatti, al caso Pollard durante la metà degli anni Ottanta. Analista statunitense, ma di origine israeliana, dei servizi di intelligence della US Navy, fu arrestato e condannato all’ergastolo per spionaggio nei confronti del Mossad, senza possibilità di essere liberato nonostante le richieste avanzate dall’allora Ministro della Difesa israeliano Yitzhak Rabin. Al di là dei singoli atteggiamenti e delle dichiarazioni, infatti, entrano in fin dei conti in gioco le regole della diplomazia”.

Il Medio Oriente torna dunque al centro dell’attenzione degli Stati Uniti. Sarà necessario comprendere tuttavia quanto peso elettorale avranno tali riflessioni. Certamente, infatti, in questa campagna elettorale,il Medio Oriente si è imposto come argomento caldo e avrà, forse, delle ripercussioni sul voto del 6 novembre, in particolare su alcune costituencies selezionate, come quella dei veterani.

* Luca Barana è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)


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