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Il ruolo del Giappone nel sogno energetico di Ankara

Creato il 16 giugno 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Paolo Balmas

La dimenticata crisi siriana e la più recente crisi ucraina hanno imposto al governo turco di mettere in primo piano la questione energetica. Ciò che oggi è indicato con le espressioni “indipendenza energetica” e “sicurezza energetica” sembra essere divenuta la ragione di fondo di molte decisioni prese a livello nazionale e internazionale, nonché la causa di pressioni esercitate sia all’interno che dall’esterno della Turchia. Ankara più di qualsiasi altra capitale della regione si è trovata stretta fra le crisi menzionate.

L’allerta sugli approvvigionamenti di gas e greggio era già scattata nel 2009 quando la Federazione Russa aveva interrotto la fornitura di gas all’Ucraina. Ma gli anni di guerra in Siria e l’inasprimento dei rapporti fra Mosca e Bruxelles (sia per quanto riguarda l’Unione Europea che la NATO), hanno determinato una presa di coscienza secondo la quale le vie alternative all’energia devono essere perseguite con decisione e senza ritardi. Non sembrerebbe esserci alcun reale presupposto per la rottura delle relazioni tra gli ex Imperi storicamente nemici (Zarista e Ottomano), tuttavia l’importanza strategica che ricopre la Turchia all’interno della NATO e l’interesse della stessa Ankara nello sfruttare al massimo tale ruolo, dimostrano chiaramente che in caso di necessità l’ago della bilancia si posizionerebbe in modo del tutto naturale verso l’Atlantico. In fondo, la Turchia è uno dei cinque Paesi dell’Alleanza che ospita le Strategic Nuclear Weapons statunitensi e occupa una posizione fondamentale dello scudo antimissilistico.

I rapporti fra Ankara e Mosca sono saldati da Blue Stream, l’arteria dell’energia che le unisce attraverso il Mar Nero. La Turchia importa attualmente due terzi del gas e un terzo del greggio dalla Federazione Russa, su una spesa totale di circa 45 miliardi di euro (2012). Inoltre, il 12 maggio 2010 è stato siglato un accordo con Mosca per la costruzione di una centrale nucleare composta di quattro reattori (1200 MWe ognuno) presso il sito di Akkuyu sulle rive del Mediterraneo. A guidare il progetto e a finanziarlo al 50% è un’impresa creata dalla statale russa Rosatom. Il complesso entrerà a pieno regime entro il 2020 per un costo stimato di oltre 16 miliardi di euro. Il progetto descritto rientra perfettamente in quelle vie alternative alla produzione di energia, sebbene sia guidato dallo stesso Paese dal quale si ricerca l’indipendenza.

La scelta di volgersi al nucleare non è assolutamente in controtendenza. Malgrado il disastro di Fukushima (11 marzo 2011), le attività di sviluppo dell’energia nucleare non si sono ridotte, al contrario sono aumentate, eccezion fatta per il Giappone. Secondo i dati rilasciati dall’ultimo Japan Atomic Industrial Forum (aprile 2014) attualmente i reattori attivi nel mondo sono 426; in costruzione 81 e 100 in fase di sviluppo del progetto. Nel 2013 persino gli Stati Uniti hanno riaperto il settore fermo da trentacinque anni e avviato la realizzazione di quattro centrali. Lo stesso anno sono entrate in funzione due centrali in Cina (qui altre trentuno sono attualmente in costruzione) e una in Iran, il quale è divenuto il trentunesimo stato a produrre energia nucleare. Sebbene negli ultimi dieci anni siano state costruite centrali quasi solo in Asia Orientale (Cina, Giappone, Corea del Sud) e in India, non mancano progetti quasi giunti al termine più a Occidente, come in Bielorussia (in funzione nel 2018), o negli Emirati Arabi Uniti.

La Turchia ha aperto la propria economia al nucleare nel 2010. Lo stesso anno, il 24 dicembre, ha firmato un’intesa anche con il Giappone per la realizzazione di un secondo impianto nel sito di Sinop, sul Mar Nero. I fatti di Fukushima di poco successivi hanno rallentato le attività a causa della diffidenza nelle competenze relative a sicurezza ambientale e industriale delle imprese giapponesi. Tali preoccupazioni sono dovute soprattutto al fatto che entrambi i siti turchi sorgono su faglie sismicamente attive. Tuttavia, la corsa alle energie alternative ha portato il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e la controparte giapponese, Shinzo Abe, a firmare un patto di collaborazione strategica in materia di energia nucleare e sviluppo tecnologico nel corso del 2013.

Il progetto di Sinop, che sarà completato nel 2028, prevede quattro reattori per una potenza complessiva di 4800 MWe per il costo, anch’esso, di 16 miliardi di euro. La costruzione è stata affidata alla Mitsubishi Heavy Industries (Mhi), in collaborazione con la francese Areva con la quale è già istituita la joint venture Atmea. Il prodotto della collaborazione sarà il reattore Atmea1 di Generazione III+, noto per l’affidabilità e l’alto livello di sicurezza che offre.

L’interesse di Tokyo non si limita al fattore economico sebbene l’affare rappresenti il ritorno in attività del settore nucleare giapponese. Per la Mhi si tratta del primo contratto siglato dal 2011. Per le grandi imprese nipponiche il mercato estero rappresenta attualmente l’obiettivo primario, visto che proprio il 22 maggio scorso la Corte di Giustizia di Osaka ha proibito con una pesante sentenza la riaccensione di due reattori nella regione di Fukui, sigillando un precedente preoccupante per l’intero settore. Chiaramente, di costruire nuovi impianti in Giappone non se ne parla. Shinzo Abe è riuscito a esportare il know-how del Sol Levante in un momento poco propizio e l’andamento del progetto determinerà il futuro prossimo di questo mercato in espansione. La Mhi, dal canto suo, ha dichiarato a gennaio 2014 di aver aperto una nuova sezione dedicata appositamente alla collaborazione con la Turchia, il Turkey Nuclear IPP Development Department. La sua funzione, tra le altre, è di accelerare le pratiche amministrative, come le disposizioni per il finanziamento o la formulazione delle condizioni di vendita.

Come si accennava, la ripresa del settore non è l’unico obiettivo. La Mhi è coinvolta in Turchia in un’altra joint venture che al Primo Ministro Abe, forse, sta ancora più a cuore. Si tratta della collaborazione per la produzione del motore di un carro armato da combattimento che la Difesa di Ankara è intenzionata ad acquistare. Sebbene non esistano conferme ufficiali, la partner turca sarebbe la Tusaş Engine Industries (fonte: Ihs Jane’s). Il governo Abe osserva da vicino l’andamento delle relazioni con la Turchia perché uno dei punti fondamentali del programma è di abbandonare quei “tre principi” che vincolano l’esportazione di armamenti. Sono vietati i traffici verso Paesi comunisti, Paesi sotto un embargo dichiarato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e Paesi coinvolti o sul punto di essere coinvolti in conflitti. Il terzo principio è stato più volte violato con la vendita di componentistica agli Stati Uniti e chiaramente è proprio quello che interessa maggiormente superare. Ma la prospettiva turca apre un orizzonte nuovo, fondamentale per la crescita economica auspicata e in linea con la ricerca di collaborazioni internazionali in materia di difesa e sicurezza. Attualmente sono in corso trattative anche con l’Australia e con la Francia per la creazione di nuove joint venture.

Una notevole importanza, in questo senso, ricopre il discorso di Shinzo Abe tenuto presso il summit della NATO durante il quale ha dichiarato di voler intensificare gli sforzi della propria nazione nelle attività militari congiunte con i Paesi dell’Alleanza Atlantica (6 maggio 2014). Tutto rientra nel tentativo delicato di riformare il rapporto del Giappone con i principi che regolano la sicurezza nell’ordine mondiale che si sta plasmando in queste ore.

L’avvicinamento tra Ankara e Tokyo si ripercuote sulle relazioni con Mosca. Le critiche della politica russa in Ucraina da parte giapponese, l’irrigidimento della posizione dell’UE e della NATO a causa della stessa crisi, il recente accordo tra Federazione Russa e Cina sulla fornitura di gas fanno pensare a un progressivo allontanamento di Tokyo da Mosca, malgrado una serie di eventi che avevano dimostrato una possibile duratura amicizia. Soprattutto in chiave energetica. Infatti, il Giappone nel momento in cui spegneva le centrali nucleari aveva visto nella vicina Federazione una soluzione alla propria sete di gas. Inoltre, nel 2013, le due potenze avevano cominciato un serio e pacifico dialogo sulle isole Curili e sullo sfruttamento dei mari che le circondano, considerati fra i più pescosi al mondo. Per la Turchia, invece, non è possibile alcun allontanamento. Si rischierebbe la rottura. I due partner sono profondamente legati, malgrado l’esistenza di politiche contrastanti sotto vari punti di vista (si pensi ad esempio agli interessi e all’influenza che esercitano sul Caucaso).

La ricerca di indipendenza energetica da parte di Ankara si inserisce in un contesto sensibile. L’intervento del Giappone in tale contesto rappresenta, oltre all’ingresso diretto di Tokyo in quello che potrebbe essere definito Nuovo Grande Gioco, una definizione più netta delle parti in causa. L’intesa con la NATO costituisce una presa di posizione che permetterà lo sviluppo da un lato di progetti congiunti in materia di armamenti, dall’altro determinerà una contrazione dell’assetto strategico mondiale. Guardando il continente eurasiatico dall’alto si prospetta uno scenario che ricorda la previsione di George Friedman, fondatore e Presidente del Centro di analisi geopolitica Stratfor, nel suo libro The Next 100 Years. Il continente eurasiatico si troverà stretto fra le potenze di questo Secolo, Turchia e Giappone (in realtà Friedman aggiunge anche la Polonia), malgrado il rallentamento subito dopo la crisi di Fukushima. Ciò condizionerà la politica internazionale dei grandi attori: Federazione Russa per prima, ma anche Cina e India.

* Paolo Balmas è Dottore in Lingue e Civiltà Orientali (Università La Sapienza, Roma) e membro del Consiglio Direttivo di Istrid Analysis

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