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Il Sapunaro di Napoli

Da Antonio

Il “Sapunaro” era un antico e curioso venditore, anzi, meglio, commerciante ambulante, che girava nei quartieri, soprattutto quelli più poveri della città, alla ricerca delle più disparate cianfrusaglie da soffitta come: abiti smessi, stracci, stoviglie malandate, sedie sghembe, coppole logore, coperte da rammendare, rotoli di spago, scarpe bucate etc., roba comunque vecchia ma che poteva rivendere, e in cambio offriva – da qui l’origine del nome – sapone di piazza, quello giallo e molle, contenuto in un recipiente di terracotta a forma di cono tronco detto scafaréa, che tutte le massaie apprezzavano per la sua efficacia nel lavare ogni cosa senza lasciare aloni.

A Napoli i saponi più pregiati venivano prodotti, fin dal ‘400, nel convento dei monaci Olivetani attiguo alla Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, nella zona che da loro prese il toponimo di Monteoliveto. Secondo la tradizione quei frati per arredare il monastero con mobilia e utensili di poco valore si affidarono ai robivecchi, i quali glieli fornivano in cambio del sapone che i monaci producevano nei loro laboratori. E proprio a questo umile e semplice baratto è dovuta la nascita del “sapunaro”, uno dei mestieri napoletani più antichi e curiosi.

I saponari avevano un loro statuto, ne esiste testimonianza fin dal 1564, un secolo prima che sostenessero con i cenciaioli l’avventura di Masaniello. Nella Napoli della rivoluzione 1799 il loro era uno dei 32 mestieri sotto la giurisdizione dell’Eletto del Popolo. Rientrava nella categoria dei lavori “per lo comodo” insieme con i molinari e gli stallieri, in opposizione alle categorie “per la sussistenza” (bottegari, verdumari, salsumari), “per lo piacere” (attori, ballerini), “per lo lusso” (orefici, corallari, parrucchieri).

Poi il folklore li ha masticati e sputati via. Carlo Bernari già nel 1996 scriveva che l’epoca era cambiata. “La roba in mano ai saponari”, gli raccontava uno, “non è mai apprezzata”. Eppure fino agli anni ’50 hanno animato i vicoli dei quartieri popolari. Una realtà del folclore partenopeo ormai scomparsa, che nella sua originalità celava, ma al contempo teatralizzava, un tessuto sociale fatto di povertà e miseria, in cui le persone meno abbienti dovevano arrangiarsi a fare qualsiasi tipo di lavoro pur di portare un po’ di soldi alla propria famiglia.

Il saponaro indossava uno stravagante campionario dei vestiti che trattava, pezzi stridenti, di ogni epoca e moda. Modulava la voce per annunciarsi : “Dateme ‘a robba vecchia, ie panne viecchie”, o più poeticamente “E cu nu sportello ‘ncapo vaco facenno ‘o sapunariello”.

La sua figura ispirò proverbi – il più noto: “Ccà ‘e pezze e ccà ‘o sapone”, per rivendicare la simultaneità di un baratto onesto – e qualche poesia come quella di Edoardo Nicolardi:

“Saponaro…Rrobba vecchia…Saponaro”

Cu nu sacco appiso ‘ncuollo,

se ne scenne p’ ‘o Cavone

nun appena, comme fosse, è gghiuorno chiaro,

passo passo e muollo muollo

pe’ dda’ ‘a voce a ogne puntone.

Oppure quella più “famosa” di Giovanni Capurro, l’autore di ‘O sole mio:

Robba ausata, scarpe vecchie

Simme lente, stammo ccà!

Bona ge’, arapite ‘ e recchie

Sapunare, sapunà.

Col passare del tempo e con i buoni affari, molti ambulanti ebbero la possibilità di sostituire al sacco di juta che si trascinavano sulle spalle, pieno di tutti i cenci e gli oggetti raccolti, un carrettino trainato da un asino (immancabilmente presente in ogni presepe napoletano che si rispetti!), in cui le persone alla ricerca di un’immediata e giusta contropartita potevano trovare di tutto (dalle stoviglie e gli stracci per lavare i pavimenti ai lupini, dalla frutta cotta come le mele al forno ai pastorelli di creta per far contenti i più piccoli). Alcuni si misero a offrire, in alternativa al sapone, piatti e zuppiere e così impropriamente vennero chiamati anche piattari. Infine prevalse l’usanza di pagare i panni usati con danaro, segnando di fatto l’inizio della fine di questo curioso mestiere che già non godeva di particolare stima da parte degli artigiani che sovente deridevano “‘o sapunariello” quando entrava nel vicolo poiché la sua era un’attività molto facile da svolgere, quasi da incompetenti, a dispetto di altri mestieri che richiedevano lunghi apprendistati, creatività e ingegno. Oggi come oggi la figura del sapunaro è ormai definitivamente sparita, lasciando spazio ai moderni rigattieri, l’uso del termine, però, è rimasto a indicare una persona dotata di una professionalità molto bassa e per lo più improvvisata, di solito poco attenta, disordinata e che fa le cose controvoglia.

Un cenciaiolo di tutt’altro tipo fu lo stracciaio. Non barattava: vendeva sacchi di juta – usati nelle botteghe per contenere farina, legumi, pasta…-, utilizzati dalla casalinghe come strofinacci per pulire i pavimenti. Gli stracci di juta vennero definiti mappine, e mappina diventò sinonimo di malafemmina. Lo stracciaio gridava “Né, putite fa’ ‘e mappine, quatto sorde ‘o sacco”. Oscar Corona cita la svelta replica di una popolana: “Damme ‘na bella mappina comm’ ‘a soreta”. Raffaele Viviani ne ricavò versi amari: “’O sapunariello…ca dint’ ‘a sporta nun tene manco na ddiece ‘e pezza”.



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