Cammino sotto le volte dei capannoni per un ultimo giro di controllo. Regna inusuale il silenzio nello spazio immobile.
Le macchine sono spente. Si è arrestato il clangore continuo degli spezzoni che cadono nei cassoni di ferro; gli aspi vuoti non tendono più nastri di acciaio oscillanti sotto i colpi dei punzoni. Rare voci percorrono rapide le corsie deserte del magazzino: “sei ancora lì?”- “si ma ho finito: sto andando via”.
I muletti incatenati al filo della corrente sono disarmati, le forche calate; si abbassano i tendoni delle ribalte. Da terra è sparita la polvere dorata che si mischia alle macchie di olio: ogni meccanismo, ripulito e lubrificato da uomini in tute bianche, riposa ora sotto fini teli trasparenti. Il sole filtra dai lucernari, incrementa l’effetto delle file chiare dei neon di sicurezza, gioca sui tavoli vuoti.
Percorro i corridoi deserti, verso l’ufficio: lo spazio sembra dilatato, ora che le corse frenetiche del materiale, che lo accompagnano a mutare forma, sono state arrestate. Ogni oggetto è fermo.
“Buone ferie” – ci diciamo noi pochi rimasti - “Anche a te. Vai via?”. Ci si scambia rapidi e allegri progetti di viaggi ed evasioni, due chiacchiere. L’eco delle risate riverbera lungo tra le campate.
Abbiamo finito, il resto può aspettare. In questi luoghi di attività convulse, per qualche giorno, comanderà irreale solo la quiete. Torno a casa, sotto il sole d’estate. Buone vacanze.