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Il talento secondo Raymond Carver

Da Marcofre

A un certo punto nel  suo “Il mestiere di scrivere”, Raymond Carver scrive:

E non è il talento. Di quello ce n’è anche troppo in giro.

Non male vero? Ho sempre ripetuto che se non c’è talento non si va da nessuna parte, e adesso Carver afferma questo. E se lo dice lui non c’è dubbio: è necessario pensarci. Magari si può essere in disaccordo però credo che meriti parecchia considerazione. Immagino che lo scrittore americano intendesse quel particolare tipo di talento che riesce a confezionare una storia (racconto o romanzo che sia), praticamente perfetto. Non ha nulla di errato o fuori posto. È una lettura piacevole. Scivola via come l’acqua, e questo è un problema.

Benché vada per la maggiore, è solo una letteratura da accompagnamento. Probabilmente ne esiste un bisogno anche forte ed è giusto che qualcuno lo soddisfi. Basta che sia chiaro che accompagna il lettore: e poi lo lascia senza che nulla sia cambiato. Non è nei suoi obiettivi cambiare o modificare. Carver al contrario, lavorava duro sulle sue storie cercando di fare in modo che il lettore al termine della lettura, scorgesse qualcosa di nuovo. Si sentisse diverso. Mica facile.

Si tratta di un altro tipo di talento. Ha alcuni punti in comune con quell’altro talento che sforna letteratura da accompagnamento. Però non lascia indifferenti: forse perché non accompagna? Forse attende: si ferma sul ciglio della strada essenza una ragione apparente, colpisce il lettore, e lo fa in modo tale da non permettergli più di tornare a dormire.

Carver non parla solo di talento (lui pensava di non averne molto). Mette in campo altri due ingredienti che rendono gli scrittori tali: lui parla di “abilità di trovare il contesto giusto” e “un modo di vedere le cose originale e preciso”.

A ben guardare si torna a parlare di quale debba essere l’atteggiamento di chi scrive. Non è qualcosa che ci si inventa sul momento. Si tratta di una specie di abito che si decide di indossare. Ma è un capo d’abbigliamento ridicolo, fuori moda, che non ripara da niente e non garantisce nulla. Però investe tutta la persona. Non è solo una questione di occhi quindi, ma di sensi, di testa.

“Un modo di vedere originale e preciso”. Non cose nuove. Le solite cose che già Omero cantava (ehi, l’Iliade si eseguiva con tanto di accompagnamento musicale, lo sapevi?), che però l’occhio dello scrittore rende originale.

Il contesto giusto, scrive ancora Carver. Sembra una banalità vero? Un personaggio si muove in un contesto, il suo. Può essere il posto di lavoro, la casa, però questo è ovvio. Perché è importante il contesto giusto? Forse Carver ha scritto qualcosa di troppo banale?

Al contrario. Si tratta di un ulteriore invito a essere ben presenti nella realtà, a calarcisi senza paure. Spesso l’esordiente si muove nella realtà come una sorta di essere prodigioso e pure meraviglioso: mentre è solo ridicolo. Si tratta di persone che immaginano la scrittura come un sistema per amplificare il proprio ego malato.

So fin troppo bene che se l’ego non ci fosse, nemmeno esisterebbero gli scrittori. Il problema sorge quando questo affare esagera, travolge limiti e paletti e dilaga.

Allora Carver ci viene in aiuto. Il contesto giusto; un modo di vedere originale e preciso. In apparenza siamo alle prese con poche parole, con dei consigli di scarso valore, vero?
Falso. Se si rileggono, si intravede tutto l’impegno e la complessità che richiedono.
Per me il contesto giusto non è soltanto: il protagonista della storia è un meccanico, quindi la storia avrà a che fare con un’officina. Questo non è un contesto, ma scenografia.

Mi fermo qui. Proprio perché c’è parecchio da dire, preferisco rimandare l’argomento a un altro post.


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