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Il tubo

Da Fabry2010

Il tubo

D’estate, alla fine di ogni sua giornata lavorativa, Marco Cedratti andava sempre a fare una nuotata.

Era il momento che maggiormente aspettava. Non al mattino, il mattino scorreva sempre con una leggerezza non voluta, con una  facilità per molti versi inaspettata. Ma già sul principio del pomeriggio, immediatamente dopo la pausa pranzo, gli saliva con lentezza tra i pensieri l’immagine dell’acqua liscia e della costa silenziosa, insieme al bisogno d’uscire, di risalire le correnti di bagnanti che tornavano a casa e di recarsi sul litorale.

Da saltuaria pratica estiva, nuotare era divenuto col tempo il suo attimo di personale scollegamento dal resto del mondo.

Nuotava esclusivamente in mare, ed esclusivamente all’arrivo della bella stagione. Non facevano al caso suo le piscine, templi innaturali di fatica e allenamento, con tutti quegli odori e quei corpi in andirivieni sulla periferia del campo visivo, vasche prive di alcuna vera profondità in cui poter affondare la mente.

Marco Cedratti non considerava se stesso uno sportivo. Sebbene in giovane età fosse stato un discreto nuotatore, col tempo aveva abbandonato lo sport – insieme all’idea di esserne un amante – e si era rifugiato nella quieta agiatezza di una vita fatta d’altro. Di lavoro soprattutto, ma anche di rari fine settimana con amici, o di bevute con colleghi d’ufficio, e, talvolta, di strampalate avventure sentimentali che di sentimentale finivano per averne sempre meno.

Nuotare in mare a un’ora di distanza dalla chiusura degli stabilimenti balneari era divenuto il cuore della sua giornata, il nucleo di silenzio intorno al quale ricostruire il senso della propria esistenza.

Marco Cedratti risaliva il fiume di bagnanti che tornavano dalla spiaggia ogni tardo pomeriggio, parcheggiava la macchina in uno dei numerosi posti lasciati vuoti – trovando uno strano senso di soddisfazione al pensiero della calca che con ogni probabilità c’era stata fino a pochi minuti prima – e in perfetta solitudine attraversava l’entrata dello stabilimento balneare “Aurora”.

Risaliva con passo quieto la fila delle cabine, fino ad arrivare alla porta numero 65. Entrava, si spogliava, indossava il costume da bagno, raccoglieva gli occhialetti da nuoto lasciati ad asciugare il giorno prima sull’appendiasciugamani e si dirigeva verso la riva.

La spiaggia era quasi sempre deserta.

Restavano i bagnini a finire di ammainare le bandiere o intenti a cicalare la sabbia e, di rado, qualche coppia di anziani a conversare nell’aria tiepida.

Attraversava lo spazio che separava la terraferma dall’inizio del mare in uno stato di concentrazione quasi sacrale.

Nella sua mente quel confine luminoso e pacifico era lì ad attendere il suo arrivo fin dall’inizio della giornata, quietamente in movimento, come la soglia di un tempio da varcare.

Soglia, proprio così

E poi soffice, leggera, morbida. Questi i primi tre aggettivi che gli affioravano nella memoria ogni volta che ripensava a quell’istante. L’attimo in cui i piedi entravano nell’acqua, il sussulto successivo ad aver toccato la superficie, quando il liquido circondava in un abbraccio le caviglie.

Infine brivido. Riconoscimento. Piacere. Sensazioni che lo accompagnavano mentre muoveva i primi passi dentro il mare.

L’acqua e l’uomo si riconoscono, gli veniva ogni volta da realizzare. Discendiamo tutti da qui. Ma è successo così nel passato, da sfuggire all’idea stessa di tempo.

Da alcuni mesi, da quando il suo nuotare era divenuto più profondo, più intenso, più concentrato, e in questo senso sempre più solitario, Marco Cedratti si era convinto che proveniva anche lui come tutti dall’acqua. Ma che ogni cosa era accaduta in un era così remota, che probabimente la storia stessa non ne avrebbe mai avuto memoria, né la scienza controprova.

“Tutto è successo in un altro luogo” pensava. “Diverso da questo.”

E si calava gli occhialetti da nuoto sul volto.

Aspettava, cullandosi in questi pensieri, fino a quando sentiva la frontiera liquida arrivargli sotto le anche, e poi sù a risalire come un siero fin quasi ad avvolgergli il bacino. E in quel momento, nel secondo in cui sentiva l’acqua insinuarsi intorno alle linee del basso ventre ed entrare in delicato contatto col pube, in quell’attimo, si tuffava.

Nuotava allora per circa mezz’ora. Dirigendosi verso il largo. Raggiungeva una distanza di un centinaio di metri – abbastanza da non essere più in grado di riconoscere il fondale sotto di sé – e poi cominciava a muoversi in parallelo alla costa avanti e indietro, fino a sentire i muscoli sciogliersi. Fino a sentirli divenire estranei al corpo. A quel punto si fermava. Si girava sulla schiena, voltava lo sguardo verso il cielo, allargava appena braccia e gambe, e galleggiava. Se ne stava lì per lunghi minuti, ad ascoltarsi respirare.

C’era in quella situazione qualcosa di dimenticato. Qualcosa che tutti, tutti quanti, pensava, dovrebbero provare. E poi quel cielo. Così vicino. Così diverso, attraversato com’era da striature bianche o viola, o rosse, quel cielo rosa o azzurro chiaro, o turchese, un cielo così mica lo si scorgeva da terra, camminando per strada o aspettando il verde ad un semaforo. Il cielo visto dal mare, pensava, quello è un altro mare

“E’ un mare che galleggia sopra il mare.”

Marco Cedratti riposava pochi minuti lasciando che questi pensieri scivolassero nell’acqua, poi si scuoteva d’improvviso, con il timore d’essersi addormentato. Si guardava attorno allora, valutava con calma le distanze, e lento ricominciava a nuotare verso riva.

Tornava ogni volta a casa all’imbrunire. Con un misterioso sorriso dentro, e una sensazione di pienezza che non si ricordava di aver mai provato, mai, neppure da bambino. Come se in quel momento fosse stato l’unico essere veramente vivo e respirante lungo quella strada.

Nondimeno non sempre era un piacere.

Alle volte l’acqua era sporca, invasa da  particelle nere, residui, scarichi, pezzi di plastica. Anzi, negli ultimi tempi la situazione era andata addirittura peggiorando. Pesci non se ne vedevano più. Ma non era questo il punto. Marco non nuotava per osservare i pesci. La presenza di pesci – come di qualsiasi altra forma di vita subacquea – addirittura lo infastidiva. Semplicemente non amava vedere i resti delle vite altrui, ecco, anche se immobili, anche se dimenticati, anche se avvolti nell’oblio di un fondale distante e sabbioso. Tutti quei segni… lo disturbavano.

Così, da un po’ di tempo in qua, nuotava sempre il più velocemente possible verso il largo, fino a raggiungere il punto in cui il fondo diveniva un’ipotesi non più verificabile. Poi continuava in parallelo alla costa, cercando di non pensare a quello che aveva visto lungo il percorso, cercando di dimenticarsi di ciò che con ogni probabilità continuava a giacere anche lì, a tutta quella distanza da riva. Nuotava e trovava conforto, e si voltava, e galleggiava specchiandosi nel cielo.

E si sentiva in pace.

In uno di questi pomeriggi però, durante l’attraversata che doveva condurlo verso il largo, gli parve di riconoscere qualcosa di bizzarro. E sebbene  si fosse più volte ripromesso di non lasciarsi deconcentrare da nulla e per nessuna ragione, questo qualcosa finì per distrarlo al punto tale da incuriosirlo.

Rimase per qualche istante a mezza strada, in stallo, ad osservare un tubo lungo e sottile, poco più grande di una pompa da giardino, che proveniente da chissà dove correva sul fondo e si insinuava proprio sotto di lui, nella sabbia.

Della presenza di tubature sui fondali marini o dell’esistenza di scarichi che correvano per chilometri fino al largo, aveva sempre sentito parlare. Non sapeva quanto fossero legali o meno, ma che esistessero, su quello non c’erano dubbi.

Il tubo, però, era apparso da un giorno all’altro come dal nulla. Questo era ciò che l’aveva incuriosito. Marco era sicuro – centopercento sicuro – che il pomeriggio prima in quel tratto di mare non ci fossero altro che particelle nere e sporcizia varia. Un tubo no, un tubo era qualcosa di nuovo.

Correva sul fondo per diversi metri. Poi risaliva di un niente verso l’alto, e appena sollevato, a pochi centimetri dal basso, curvava in una sorta di tornante proprio davanti ai suoi occhi, andando ad infilarsi con decisione quasi perpendicolare nel fondo.

S’immerse, l’osservò da più vicino. Titubante prima, poi diffidente, e con una strana irrequietezza a farglisi largo dentro al petto. Finché nel provare a toccarlo, si scoprì addirittura spaventato. Gli parve vivo.  Tornò verso la superficie con un energico colpo di gambe, diede quattro possenti bracciate e si allontanò, cercando di distanziarne al contempo l’immagine dalla sua mente. Raggiunse il largo ancora sotto affanno, e solo dopo essersi messo a galleggiare a pancia in sù, riuscì a rilassarsi.

Gli venne addirittura da ridere al pensiero della reazione avuta poco prima.

Tornò poi come suo solito verso la costa, badando bene a nuotare su di un altro corridoio di corrente rispetto all’andata, e una volta a casa, se ne dimenticò

La notte fu densa d’incubi.

Un infinito rigirarsi nel letto tra lenzuola divenute d’un tratto liquide. Sognò il tubo. Lo sognò, viscido e misterioso, che stava sotto, che gli si muoveva in parallelo sul fondale. Poi, nell’istante in cui lui si fermava, si attorcigliava attorno alle sue gambe e gli avvolgeva il torace, e, nella solitudine del momento, lo trascinava con sé sul fondo fino a farlo scomparire.

Un attimo prima Marco Cedretti stava nuotando. L’istante successivo era scomparso.

Venne il giorno. Marco cercò di non pensare a nulla. Né al mare, né alla notte precedente, né soprattutto al tubo. Pioveva con furia. Se ne stette tutto il tempo alla sua scrivania, sprofondato in un impenetrabile silenzio . Di solito l’arrivo di un temporale estivo lo infastidiva, ma questa volta si accorse di averne accolto i segnali con un gesto quasi di sollievo, come se il fatto di non poter andare al mare in un certo senso addirittura lo confortasse. A sera guardò un film, mangiò una pizza, ragionò d’altro.

Ma durante la notte gli incubi tornarono ad assediarlo. Questa volta poteva vedere l’interno del tubo. Era pieno di cose, di immagini, di fantasmi, di suoni. Conficcava ogni cosa nel centro della terra, nutriva così il cuore del pianeta. Ecco perché nessuno andava più a nuotare. Marco ebbe la sensazione che tutti, tutti quanti sapessero, anche per strada, anche in ufficio.

Si svegliò coperto di sudore e tremante, con la fronte gelida e la schiena appiccicata al materasso. Accese la luce, si tirò sù. Si mise a girare inquieto per casa. E per il resto di quella notte non riuscì più a prendere sonno.

Ad aspettarlo il mattino dopo trovò una mattinata di sole.

Andò in ufficio e lavorò fino a tardi. E all’ora di chiusura scese verso la macchina, l’aprì, la mise in moto e si diresse verso la spiaggia.

Mentenne i pensieri su di un manto costante di leggerezza con l’unico scopo di non pensare, non titubare, non venire angustiato da alcun tipo di ragionamento non voluto.

Arrivato allo stabilimento balneare, poi, camminò di gran lena lungo le cabine, col costume già indosso, fino al bagnasciuga.

Tutte stupidate continuava a ripetersi. Certo che sono tutte stupidate, ma a pensarci troppo alle stupidate, si finisce per crederci.

Entrò nell’acqua e mosse i primi passi. Si calò gli occhialetti sul volto, si tuffò. Si mise a nuotare con decisione verso l’orizzonte.

Nuotò senza badare troppo al fondo, aspettandosi da un momento all’altro di veder comparire la sagoma del tubo – ma convincendosi al contempo di stare ignorando la cosa – e si diresse in questo modo verso il largo. Finché, raggiunto un punto sufficientemente distante da riva, si mise a pancia all’aria, schiacciò con tutta la forza che  ancora aveva in corpo lo sguardo contro il cielo, e aspettò

“Non c’è alcuna ragione di avere paura di un tubo” si sentiva ripetere mentre respirava.


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