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Italiani: popolo di santi, poeti, navigatori... e scrocconi!

Creato il 22 agosto 2011 da David Incamicia @FuoriOndaBlog
Italiani: popolo di santi, poeti, navigatori... e scrocconi!
Che noi italiani ci distinguiamo da sempre per l'incomparabile scaltrezza è cosa nota. Qualità che ci ha sovente consentito di venir fuori da situazioni gravi e compromettenti ma che ci ha pure fatto guadagnare nel mondo la fama, non del tutto immeritata, di popolo disonesto e avvezzo a ogni forma di scorciatoia. Con tanto di pizza, spaghetti, mandolino e di quel marchio infamante che risponde al nome di "mafia" a soddisfare la cinica fiera dei luoghi comuni. Da qualche anno, in particolare, siamo stati abituati all'esistenza di cricche varie e di schiere più o meno note di furbetti, e agli annessi scandali di "affittopoli", "quartieropoli", "parentopoli", P2, P3 e P4. In questi ultimi mesi, poi, tanto per non farci mancare niente, è venuta a galla la vasta rete di corruttele che investe il delicato settore della sanità e della previdenza, certamente grazie al solito spregiudicato protagonismo della politica ma allo stesso tempo a causa dell'indole truffaldina del cittadino assistito.
Panorama e Repubblica, ad esempio, due organi di stampa politicamente agli antipodi ma sempre attenti a dar conto delle storture della pubblica amministrazione, è già da tempo che ci informano, con numerose inchieste e puntuali dossier, circa il macroscopico giro di malaffare e di malcostume che gravita attorno al sistema sanitario e previdenziale. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, in particolare, si è dedicato alla grande evasione legata alle esenzioni, portando alla luce un interminabile elenco di scrocconi - magari proprietari di tre appartamenti e con un reddito di 4 mila euro al mese - che non pagano le prestazioni e i farmaci.  L’importante - suggerisce sarcasticamente Repubblica - è non impappinarsi di fronte all’impiegato della Asl quando si afferma: "Ho l’esenzione per reddito". Il giochetto riesce ogni giorno a migliaia di italiani, in tutte le regioni. Perfino il Veneto si è messo a controllare le dichiarazioni al fisco del 5% dei cittadini che negli anni addietro hanno detto di essere indigenti e perciò non hanno tirato fuori un euro per esami, visite e analisi nelle strutture sanitarie pubbliche. Ebbene, una parte significativa di loro non aveva diritto all’esenzione. Secondo quanto comunicato dalla Regione al Ministero delle Finanze, in un anno quel gruppo di falsi esenti, certamente molto ridotto rispetto al totale, ha fatto mancare alle aziende sanitarie venete la bellezza di 10 milioni di euro.  Del resto, siamo un Paese di evasori e il ticket sanitario non può certo fare eccezione. Tra imbrogli, controlli approssimativi e una normativa dalle maglie larghissime nessuna Regione riesce ad evitare di perdere soldi. Per la cosiddetta specialistica (visite, esami ed analisi), il ticket costa al massimo qualche decina di euro. Chi non lo paga, pertanto, non si sente autore di un crimine - proprio come chi nasconde i soldi all’estero o fa migliaia di euro di nero - ma di fatto contribuisce a produrre un danno molto rilevante alle casse dello Stato. I furbetti del ticket, infatti, messi tutti insieme, ogni anno evadono almeno un miliardo e 100 milioni di euro. Una cifra di poco inferiore a quella che versano nelle casse delle Asl i non esenti, cioè un miliardo e 600 milioni. Vuol dire che il 40% di coloro che dovrebbero pagare la tassa sulla sanità in realtà la evade.  Dal ticket per la specialistica sono dispensati due gruppi di cittadini: chi ha una invalidità e chi ha problemi economici. Sono questi ultimi a sfuggire al controllo delle Asl, perché a loro basta un’autocertificazione per non pagare la tassa su visite ed esami. Questa categoria di esenti è composta da disoccupati, titolari di pensione minima o sociale e da tutti coloro che hanno più di 65 anni o meno di 6 anni, e un reddito lordo familiare inferiore a 36 mila euro. Quanti sono, però, i cittadini con un’esenzione nel nostro Paese? Di certo - fa notare una delle inchieste di Repubblica - la maggior parte di coloro che si rivolgono alle strutture pubbliche. In una Regione considerata virtuosa come la Toscana, a non pagare il ticket sia per motivi di salute che di reddito è il 57% di chi consuma prestazioni sanitarie. Se si vanno a prendere le fasce di età, si trovano numeri ancora più interessanti. Considerando solo chi nell’arco di un anno non paga la tassa a causa del reddito basso, gli ultrasessantacinquenni sono oltre il 65%, i bambini sotto i 6 anni oltre il 55%. In buona parte delle altre Regioni i numeri sono anche sensibilmente più alti. E disegnano una situazione economica degli italiani assai poco credibile.
 Ma quali sono i dati dell’evasione? E soprattutto, quanto pesa in ogni Regione italiana il mancato guadagno? Non esiste un calcolo certo ma incrociando i dati del Ministero della Salute si comprende il fenomeno. Ogni anno il sistema sanitario recupera 1 miliardo e 605 milioni di euro di ticket. Il 73% della cifra entra direttamente nelle casse delle aziende sanitarie, il resto viene riscosso dal privato convenzionato. Per avere una prima idea dell’evasione va fatto il rapporto tra incassato e popolazione di ogni Regione. Le differenze tra le varie realtà sono legate alla maggiore o minore incidenza degli esenti per reddito, perché non ci sono motivi epidemiologici che facciano pensare a grosse differenze nei dati di quelli per patologia. Questo tipo di esenzioni, tra l’altro, richiede un certificato medico e un attestato della Asl. Cioè si ottiene con una procedura assai più complessa dell’autocertificazione.  Ovviamente esistono i falsi malati, ma se si parla di ticket pesa di più l’evasione di chi dice di non guadagnare abbastanza. Ebbene, a guardare il dato nel dettaglio si trovano differenze importanti. Ogni anno in Valle d’Aosta gli abitanti pagano in media 36,3 euro a testa per visite ed esami nel pubblico, in Veneto 36,2, in Emilia 33,9, in Friuli 33,6, in Toscana 32,9, in Piemonte 30,8, nelle Marche 28,8. Partendo dal fondo della classifica ci sono la Calabria, con 15,5 euro versati all’anno, poi la Puglia con 17,5, la Campania con 22,3 euro, l’Umbria 26,1, la Sardegna con 26,5, la Sicilia, 27,7. Non brillano il Lazio, con 21 euro (ma il dato non tiene conto di quanto riscosso dal privato convenzionato), e la Lombardia, che si ferma a 27,1. La media nazionale è 26,7 euro.  Alcuni osservatori obiettano che è impossibile valutare la spesa dei cittadini perché certe Regioni sono più povere di altre. In realtà, Repubblica ha svolto una sorta di indagine incrociata confrontando il dato del 2009 con la distribuzione del reddito medio nelle Regioni nel 2008. In Veneto il ticket rappresenta così l’1,85 per mille di quanto guadagnato in media all’anno da ogni cittadino, in Val d’Aosta l’1,77, in Friuli l’1,72, in Toscana l’1,69, in Emilia l’1,64, nelle Marche l’1,63, in Piemonte l’1,53, in Lazio lo 0,98 (ma c’è il problema dei convenzionati). Nelle nuove risultanze, una parte del Sud recupera sul Nord. In Campania il ticket rappresenta l’1,41 per mille di quanto denunciato da ogni cittadino mediamente in un anno, in Sicilia addirittura l’1,83, in Sardegna l’1,62. Restano basse Calabria (1,15) e Puglia (1,18). Colpisce il dato della Lombardia, che è l’1,20 per mille, come fosse una realtà meridionale. La media nazionale è di 1,41.  Se il sistema si uniformasse e le Regioni facessero maggiore attenzione all’evasione, i soldi recuperati dalle Asl sarebbero molti di più. Questo ragionamento è rafforzato da altri dati, ricavati dal rapporto tra l’investimento del sistema per offrire ai cittadini l’attività specialistica e i soldi che rientrano dai ticket per compensare questi esborsi. Le strutture pubbliche, per assicurare ai cittadini italiani esami, analisi e visite spendono circa 13 miliardi e 600 milioni di euro. Il sistema, invece, incassa dai ticket circa 1 miliardo e 605 milioni, cioè l’11,8% di quanto spende.
 Ma quanto entra nel giro di un anno nelle casse di ciascuna Regione grazie alla tassa sulla specialistica e quanto in più potrebbe entrare? Anche in questo caso, considerando pure che i dati raccolti sono precedenti alla riproposizione da parte del governo, nella recente manovra economica, della cosiddetta "tassa sulla salute",  la situazione non è omogenea. La Campania incassa circa il 9,2% della spesa, la Calabria il 7,5%, la Lombardia il 9,9%, la Liguria il 10,4% e la Puglia l’11,7%. Le altre Regioni stanno sopra la media nazionale: Valle d’Aosta 16,8%, Umbria 16%, Toscana 16,5%, Friuli 15,4%, Emilia il 14,6%, Marche il 13,7%, Piemonte il 13,1% Sicilia il 12,6%, Sardegna 12,5%. Le differenze tra i numeri non sono giustificate, poiché teoricamente la percentuale di soldi che rientrano dovrebbe essere uguale ovunque. Se tutte le Regioni, grazie a verifiche più mirate, scovassero i tanti furbetti portando i loro dati ad un livello ritenuto dai tecnici sanitari plausibile e comunque non irraggiungibile (cioè intorno al 20%), quanto incassato con i ticket salirebbe a 2 miliardi e 722 milioni di euro. Cioè un miliardo e 100 milioni di euro in più, soldi che presumibilmente oggi vengono evasi. La Toscana stima di perdere per l’evasione 45 milioni all’anno, e ha circa un ventesimo degli abitanti del paese. Se si moltiplica si arriva a circa 900 milioni su scala nazionale.  Per recuperare i soldi perduti resta fondamentale l’attività delle forze dell’ordine. Negli ultimi mesi Nas e Guardia di Finanza hanno denunciato e arrestato centinaia di persone in tutta Italia. Per fare un esempio, nella relazione sull’attività di controllo svolta nel 2010 dalle Fiamme Gialle risultano 4500 denunce di falsi invalidi e falsi poveri. Emblematico il caso di Caulonia, un paese di 7 mila abitanti in provincia di Reggio Calabria. Qui i finanzieri hanno scoperto, indagando tra chi in un anno si è rivolto al presidio sanitario locale, ben 621 persone che si sono dette disoccupate o indigenti laddove in realtà erano proprietarie di case o titolari di attività da 300 mila euro all’anno.  L’evasione del ticket sanitario, dunque, appare quasi un costume sociale, al Nord come al Sud. Ma cosa rischia in Italia chi viene scoperto e finisce sotto processo per non aver pagato il ticket? Normalmente le Procure contestano il reato di truffa, ma le sezioni unite della Cassazione hanno di recente depositato una sentenza che cambia le cose e alleggerisce la posizione dei colpevoli. Il reato di chi ottiene l’esenzione per prestazioni sanitarie attraverso un’autocertificazione falsa sul reddito sarebbe "indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato". Se si tratta di una prestazione da meno di 4 mila euro, come appunto nel caso del ticket, il codice penale prevede una semplice sanzione amministrativa tra 5.164 e 25.822 euro. Insomma, come spesso accade in Italia, a chi dimostra di "saper stare al mondo" si riserva indulgenza a iosa. E nemmeno la legge pare sottrarsi a questa pessima consuetudine.
 E la grande evasione va avanti, tanto che - come accennato - ben 4486 falsi invalidi sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza nel corso del 2010. Truffatori che, avendo fraudolentemente attestato un basso tenore di vita, avevano fruito dallo Stato e da altri Enti pubblici di agevolazioni non spettanti sotto forma di borse di studio, contributi sugli affitti ed altri sussidi che potevano essere destinati a soggetti veramente bisognosi. Tra questi, finti poveri in Veneto che chiedevano contributi per pagare l’affitto di casa ma guidavano auto di pregio, proprietari di lussuosi appartamenti nel centro di Firenze che chiedevano buoni per le mense scolastiche e per l’acquisto dei libri scolastici dei figli, fino a un commerciante della recidiva Calabria che otteneva l’esenzione del ticket sanitario per dichiarata indigenza ma possedeva 90 immobili.  Su queste storie di ordinario ladrocinio il settimanale Panorama ci ha addirittura fatto la copertina di uno speciale, che ha preso spunto da alcuni fatti di cronaca avvenuti in Campania, altra regione sistematicamente alla ribalta per simili faccende. Al centro dell’attenzione, in questo caso, una truffa ai danni dell’Inps perpetrata da un consigliere della 1ª municipalità del Comune di Napoli, capace di provvedere (con l’inganno) a tutta la famiglia. Per sé aveva certificato una "sindrome delirante cronica" e per sua madre una forma grave d’invalidità. Per la moglie una schizofrenia incurabile e per le zie di lei una devastante cecità. Risultato: l’intero nucleo familiare sbarcava il lunario a spese della previdenza pubblica intascando fior di pensioni d’invalidità. E non è tutto. L’alacre imbroglione era riuscito a radunare, intorno al Caf che aveva in gestione, una vera corte dei miracoli: vicini di casa e amici degli amici, tutti colpiti da mali oscuri e disgrazie congenite e tutti, naturalmente, beneficiari di un assegno di invalidità.  A mettere fine all’imbroglio è stata la Procura di Napoli che, con un’iniziativa senza precedenti, ha ordinato l’arresto dei falsi invalidi (finti ciechi, sedicenti pazzi, persone che erano riuscite ad ottenere diagnosi infondate di cancro) insieme con i registi della truffa. Oltre un centinaio di persone sono finite in manette e l’inchiesta è tuttora in corso. Il giro d’affari illeciti superava i 9 milioni di euro, con intere famiglie che si dichiaravano affette da malattie fasulle e giuravano di averle trasmesse in eredità ai figli. L’effetto? Nuclei familiari dove il numero di pensioni di invalidità riguardava anche fino a nove persone.  Nel 2010 c’è stato il giro di vite dell’Inps e nell’intera provincia di Napoli è stato sottoposto a verifica il 55% delle prestazioni erogate. Con risultati sconcertanti: il 20% dei benefici sono stati cancellati perché risultavano assegnati a falsi invalidi, a persone che erano guarite nel frattempo o che soffrivano di patologie non così gravi da giustificare il sussidio. E le statistiche elaborate dall’Asl fanno ipotizzare che dietro ci siano vere e proprie organizzazioni che agiscono in diversi quartieri. Il rapporto sociosanitario su Napoli "Profilo di comunità 2010-2012" - approfondito proprio da Panorama - dimostra che i tassi di invalidità cambiano notevolmente da una zona all’altra. Nel centro storico, nell’arco di un solo anno, le pratiche sono quasi raddoppiate. E punte record nelle richieste di invalidità si segnalano nelle zone più disagiate, ma che contano un minor numero di anziani.
 Da questi fatti si evince che una maggiore attenzione da parte degli organismi preposti e dell’autorità giudiziaria è doverosa, anche perché le indagini stanno accertando che la camorra è riuscita a inserirsi nel business delle infermità posticce, potendo contare su robusti agganci fra funzionari e politici locali. Tracce di queste infiltrazioni sono emerse nel Comune di Chiaia, dove due burocrati infedeli avrebbero provveduto a inserire i fascicoli con documentazione medica e amministrativa contraffatta, corredati da sigilli riprodotti "in modo perfetto". Con la conseguenza che l’istituto di previdenza ha intestato assegni a familiari di detenuti affiliati a clan camorristici, che scaricavano così sullo Stato i costi di gestione degli stessi clan.  Lo scandalo è esploso quando una funzionaria coraggiosa, Teresa Vitale, ha segnalato ai carabinieri le anomalie. Poco dopo, due computer del suo ufficio sono stati cosparsi di acido muriatico. Come lei, anche il presidente della 1ª municipalità è stato minacciato: prima ha ricevuto una lettera anonima, poi ha trovato un proiettile attaccato con lo scotch sull’uscio di casa. Un altro esposto l’ha presentato Maria Vittoria Montemurro, direttrice della medicina legale dell’Asl, cui fa capo la commissione provinciale ciechi. Controllando le 220 pratiche presentate nel triennio 2007-2009, Montemurro ha scoperto falsi grossolani: perfino la sua firma era stata imitata per autorizzare i pagamenti indebiti.  Chi rischia di finire nel calderone della prevedibile stretta dei controlli sono i veri invalidi. La commissione regionale di monitoraggio e verifica sulle invalidità ha esaminato oltre 200 mila pratiche ed è riuscita ad accertare che, in alcuni casi, i falsari sono arrivati a riprodurre persino i documenti su carta intestata del Ministero dell’Economia. La ragione? Con quelle carte false si poteva retrodatare la richiesta di invalidità. Sistema che ha fatto incassare anche fino a 50 mila euro per i sussidi arretrati. Dall’inchiesta è emersa pure una certa ripetitività nell’elenco delle strutture ospedaliere da cui provengono i certificati dello scandalo: Cardarelli, Monaldi, Policlinico. Il dubbio, quindi, è che la rete delle complicità si estenda agli ospedali e che vi sia più di una talpa che provvede a compilare i certificati fasulli. E si tratta di complicità insospettabili: medici e avvocati senza scrupoli, dirigenti dell’Inps e dell’Asl, consulenti e periti del Tribunale, esperti nella falsificazione di atti giudiziari. Un centinaio sono le posizioni sotto osservazione. Le indagini hanno fatto addirittura scoprire che certificati fasulli sono stati allegati ai ricorsi giudiziari, passando inosservati.  Insomma, si tratta di un sistema consolidato ma con molte falle. Gli imbrogli all’Inps scoperti o sventati in Campania nel 2010 sono stimati in 233 milioni di euro, non solo false invalidità ma anche pensioni pagate per anni ai defunti e riscosse dagli eredi. Come dimostra un’indagine della Guardia di Finanza che ha visto coinvolte 12 persone che avevano accumulato 885 mila euro in conti correnti, auto e appartamenti in Lombardia. Ora dovranno restituire le somme incassate con la frode. La squadra mobile, invece, ha accertato una forma nuova di truffa: si certificano false assunzioni per poter poi godere di sussidi di disoccupazione. Se non fosse stato scoperto, il giro d’affari avrebbe toccato i 16 milioni di euro. I casi smascherati sono stati 2 mila e hanno riguardato 27 aziende. I più clamorosi ad Avellino, dove il titolare di un negozio di scarpe aveva dichiarato di avere assunto, in un mese, 164 commessi; e a Caserta, dove c’era una pizzeria con 170 pizzaioli; infine a Quarto, dove una concessionaria di automobili aveva messo nero su bianco d’avere reclutato 150 meccanici, tutti chiamati a lavorare in uno spazio di pochi metri quadrati.  Chiaramente, sono tutte truffe che devono poter contare su complicità interne. L’Inps ha infatti avviato verifiche nel 2010 provvedendo a licenziare cinque funzionari, mentre sono in corso accertamenti per una trentina di dipendenti. Tra gli imbrogli venuti a galla, i contributi gonfiati a 160 aspiranti pensionati: un raggiro da 1,5 milioni. Un’inezia a paragone della truffa per 216 milioni di euro spesi per pagare i sussidi di disoccupazione a 46.123 braccianti stagionali assunti soltanto sulla carta. Il 20 per cento di essi risultavano inquadrati in aziende prive di terreni o con contratti d’affitto scaduti. Tra le attività più fantasiose (chiaramente fittizie) segnalate all’Inps, in provinica di Salerno figurava pure un campo coltivato a fragoline di bosco, con un turnover di oltre 200 lavoratori che, però, non avevano raccolto neppure un frutto.  Il vortice delle ruberie non si è fermato nemmeno nel 2011. L’Inps ha reso noto che nei primi sei mesi dell’anno sono state effettuate oltre 30 mila ispezioni, che hanno portato alla scoperta di 29 mila lavoratori in nero e al recupero di ben 345 milioni di euro per contributi non versati. Ma il sommerso riguarda numerosi segmenti sociali e non soltanto lo sfruttamento di reietti e poveracci. I giornali proprio in questi giorni stanno pubblicando gli sconcertanti redditi medi ricavati dalle dichiarazioni Irpef dei lavoratori autonomi: 46.200 euro per i dentisti, 46.700 per gli avvocati, 17.700 per i concessionari di automobili, 14.500 per i ristoratori, 14.300 per gioiellieri e orologiai. Tanto per citare un esempio eclatante, il 12 agosto scorso la Guardia di Finanza di Firenze ha messo sotto inchiesta un’intera famiglia di imprenditori del tessile per una frode fiscale da 10,2 milioni di euro, basata su false fatturazioni e aggiramento dell’Iva. Da gennaio a luglio di quest’anno, inoltre, sempre la Guardia di Finanza ha smascherato truffe ai danni della previdenza per 48 milioni di euro: circa tremila sono i falsi invalidi e i finti poveri fatti emergere, con controlli che hanno portato alla denuncia di 4.400 persone.
 E l’evasione, ovviamente, va anche in vacanza.  Uno studio di Assoedilizia appena pubblicato afferma che il 18-20 per cento delle presenze nelle strutture ricettive è in nero, con un gran fiorire di cartelli del tipo: "Non si accettano pagamenti con assegni e carte di credito". Mentre sotto l’ombrellone, l’Agenzia delle Entrate sta scoprendo ricavi non dichiarati dagli stabilimenti balneari per oltre 1 milione di euro. Emblematico il caso del litorale romano, dove è emerso un reddito medio pari a 86 mila euro a fronte dei circa 18 mila dichiarati da ogni esercente.
  A conti fatti, ogni anno lo Stato è come se rinunciasse a un oceano di soldi. Un oceano frutto dell’economia illegale che ammonta a trecentotrenta miliardi di euro dove si potrebbe andare a pescare, in un momento in cui il governo vara una manovra che promette almeno tre anni di lacrime e sangue ai soliti noti, con più tasse e drastici tagli alla spesa. Nel dettaglio: 150 miliardi, come ci dice la Commissione parlamentare antimafia, sono il fatturato della criminalità organizzata; 60 miliardi, secondo le stime della Corte dei Conti, sono il costo pubblico della corruzione, vale a dire mille euro a cittadino neonati compresi; 120 miliardi, infine (e a rivelarlo è direttamente il Ministero dell’Economia), corrispondono all’evasione fiscale. Un dato, quest’ultimo, confermato pure da un recente studio dell’istituto Krls-Network of Business Ethic e che pone l’Italia al primo posto in Europa per la quota di reddito non dichiarato: il 51,1%.  Si tratta di un livello record, superiore di ben 12 punti percentuali a quello del secondo Paese europeo con la maggiore evasione fiscale: la Romania (42,4%). Al terzo posto, in questa classifica dei Paesi evasori, troviamo la Bulgaria (39,8%), seguita dall’Estonia (38,2%) e dalla Slovacchia (35,4%). I tre Paesi più virtuosi, invece, sono la Svezia con solo il 7,3% del reddito evaso, il Belgio con il 10,1% e l’Inghilterra con l’11,7%. Dunque, l’Italia appare sempre meno un Paese occidentale e sempre più ai margini dell’esclusivo club delle economie sviluppate. Anzi, dai dati si potrebbe quasi concludere che siamo diventati il primo fra i Paesi dell’Est. Nello specifico, i principali evasori italiani si confermano le industrie (32,8%) seguite da banche e assicurazioni (28,3%), commercianti (11,7%), artigiani (10,9%) e professionisti (8,9%). A livello geografico, l’evasione è diffusa soprattutto nel Nord Ovest (29,4% del totale nazionale), seguito dal Sud (24,5%), dal Centro (23,2%) e dal Nord Est (22,9%). In Lombardia si registra il maggior aumento dell’evasione fiscale con il 14,7%, anche se in termini di reddito non dichiarato il record tocca a Napoli (66%) e Campania (64%) dove 2 commercianti su 3 non rilasciano lo scontrino fiscale.
E che dire delle liquidazioni dei parlamentari, tutte rigorosamente esentasse? Sì, perchè mentre la crisi brucia e molti italiani tremano per le loro pensioni, tredicesime e buonuscite, gli onorevoli (specie quelli col doppio lavoro) possono cominciare a pregustare le ricche liquidazioni che li attendono a fine mandato. I nostri tribuni, infatti, quando smettono di "occuparsi delle emergenze del popolo" percepiscono pure un corposo "Assegno per il reinserimento nella vita lavorativa". Si chiama proprio così. E riguarda una truppa di 446 parlamentari su 945 eletti. Questi signori non solo prendono uno sipendio mensile di 14 mila euro netti; non solo non pagano aerei, treni, autostrade, stadi, ristoranti e quant’altro; non solo quando compiono 65 anni incassano un vitalizio che va dai 2.500 ai 7.500 euro lordi: quando escono dal parlamento passano a ritirare pure 46.814 euro (se il loro mandato è durato appena una legislatura ma l’importo può anche essere maggiore), detti tecnicamente "importo non imponibile". Si tratta o non si tratta di una forma legalizzata di evasione fiscale?.  Per non parlare dell’obbrobrio rappresentato dai privilegi della Chiesa cattolica, proprio di quella che un giorno sì e l’altro pure dispensa ramanzine alle laiche istituzioni repubblicane per la mancanza di esemplari sacrifici in tempi di vacche magre che affliggono, in particolare, la prediletta cellula della famiglia. Il Fatto quotidiano, calcolatrice alla mano, rivela che le attività esentasse del Vaticano costano allo Stato italiano tre miliardi all’anno. A destare la crescente riprovazione dell’opinione pubblica è soprattutto il mancato pagamento della tassa sugli immobili: basta un piccolo spazio per la preghiera (o per le "attività meritevoli" previste dalla legge) e scatta l’esenzione fiscale, anche se l’edificio è un albergo di lusso. E poi l’abbattimento dell’Ires del 50% riservato agli enti di assistenza e beneficenza, e il contributo dell’8 x mille del gettito Irpef dei cittadini italiani, per una cifra che supera i 900 milioni di euro annui. Dalla Chiesa sarebbe lecito attendersi, in una fase così drammatica, un atto di responsabilità e di coraggio, l’effettivo buon esempio sempre predicato e sovente disatteso: almeno la rinuncia all’esenzione dell’Ici per le attività commerciali collaterali ai luoghi di culto. Siamo certi che Colui che scacciò i mercanti dal tempio approverebbe...
Tuttavia, nonostante la crudezza dei numeri, bisogna stare attenti a non generalizzare. E' vero, chi certamente non può sfuggire alle maglie del fisco sono sempre e soltanto i dipendenti e i pensionati, ma questo non vuol dire che tutti gli autonomi, i commercianti o i professionisti sono delinquenti. Così come non tutti i malati sono dei falsi malati. Perchè a sparare nel mucchio si finisce spesso per far pagare le maggiori conseguenze, per l'appunto, a chi fa il proprio dovere di cittadino onesto e a chi i problemi di salute li ha per davvero.
Il cosiddetto ceto medio (soprattutto famiglie, dipendenti e pensionati che pagano regolarmente le tasse) e i veri invalidi (soggetti realmente bisognosi di assistenza e che detengono un effettivo diritto ai benefici previsti dallo Stato) sono i settori più colpiti dal degrado efficacemente descritto, al netto di ogni eccesso ideologico, dalle indagini della stampa e dalle rilevazioni demoscopiche. Un degrado atavico che è iscritto naturalmente nel dna di molti italiani ma che è andato accentuandosi negli ultimi anni, anche per il venir meno di quel fondamentale requisito rappresentato dall'etica nell'esercizio della funzione pubblica, tanto a livello centrale quanto in periferia, e non solo per le radici velenose e difficili da estirpare della criminalità organizzata.
Eppure, non tutti i dati sono negativi e tanti italiani sembra che non sopportino più chi fa il furbo con il fisco. Da un'indagine di Confesercenti/Ispo emergono giudizi chiaramente improntati ad un severo rigore in materia fiscale. E a bocciare l'elusione fiscale sono tre italiani su 4, che significa che a dire no ai "furbetti del 730" é il 79% dei cittadini. "Un atteggiamento che si accompagna all'esigenza sempre più evidente di un fisco che cominci ad invertire la marcia per diventare gradualmente meno pesante", indica la ricerca. Da cui emerge pure l'esigenza di "una riforma fiscale che pesi meno su famiglie e imprese", oltre a una forte preoccupazione per l'inarrestabile crisi finanziaria. A livello territoriale, il "pollice verso" sul fenomeno dell'evasione fiscale cresce in modo consistente al Centro (62%) e al Sud (50%). Al Nord, invece, oscilla su valori intorno al 40% in assoluta controtendenza.  La presenza nel Paese di una ampia (e presunta) maggioranza virtuosa che - soprattutto nella fase più acuta di crisi - non è disponibile ad essere tollerante, viene segnalata anche da un altro test. Di fronte alla considerazione che si può "pensare ai problemi economici personali e non pagare qualche tassa", la percentuale di chi non è d'accordo su questa tesi si attesta al 76%. Resiste, tuttavia, quasi un quarto della popolazione che sembra voler giustificare un atteggiamento egoistico o di "sopravvivenza" costi quel che costi. Fra questi ultimi, però, emerge un 36% di persone in cassa integrazione o che ha perso il lavoro. Quelli che sono a favore di un comportamento corretto si trovano in particolare fra i soggetti più acculturati. Nel gruppo degli indulgenti verso comportamenti non corretti, oltre alla fetta cospicua dei disoccupati, seguono il 5% delle casalinghe, il 22% dei lavoratori dipendenti con basse qualifiche e, ancora, il 17% dei pensionati, tutte "categorie sociali che subiscono i colpi più pesanti della fase recessiva ed esprimono molto probabilmente - evidenzia la ricerca - anche la rabbia nei confronti dello stato di disagio che sono costrette a subire, rispetto a una società che non garantisce stabilità del lavoro ed è carente in termini di equità". Vi sono fra loro poi molti imprenditori e professionisti, intorno al 20%.
 Uno Stato veramente civile e democratico, specialmente in Occidente, deve essere in grado di colpire in modo selettivo le mele marce e di rimuovere ogni incrostazione che inquina in modo quasi esiziale il proprio tessuto sociale, garantendo e proteggendo nel contempo i cittadini più deboli. E qui interviene l'interrogativo decisivo: siamo certi che lo Stato italiano, quello stesso Stato che continua in modo egoista ad accanirsi ad ogni manovra economica sempre e solo sulla classe media risparmiando, appunto, i furbi e gli evasori e proteggendo se stesso (la casta), e che si conferma incapace di tutelare i propri giovani dalle insidie del presente e di affidare loro le redini del futuro, possa farsi carico dei bisogni degli invalidi, dei disabili, degli anziani e degli immigrati che, messi assieme, stanno divenendo la parte preponderante della nostra ammorbata società?  Non basta lavarsi come sempre le mani, scaricando sui cittadini il dovere civico della responsabilità. Gli spot del governo che in questo periodo vengono mandati a ripetizione sulle reti Rai, e che ci invitano a richiedere la ricevuta fiscale o lo scontrino quando usufruiamo di una prestazione o effettuiamo un acquisto, sono un ipocrita "specchietto per le allodole". Se lo Stato, il governo, vogliono davvero delegarci il compito di impartire lezioni di equità e di giustizia sociale che si facciano pure da parte: ne uscirebbero con le ossa rotte e con il conto in banca più leggero. Dare una risposta, innanzitutto e fino in fondo da parte delle istituzioni, magari con manovre economiche che colpiscano i furbi e i parassiti e si sforzino di premiare gli onesti, è invece quanto mai necessario ed urgente. Prima che la gente comune e perbene e innanzitutto i giovani, si accorgano finalmente che senza una reazione forte sono destinati ad accrescere la già folta schiera degli "ultimi".

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