CICCIO RUSSO: l’ipotetico lato A oscilla tutto tra il “quasi fico” (
Halls of Valhalla) e il “carino, dai” (lo scontato ma gradevole mid-tempo
March of the Damned). A partire dalla seconda metà si inizia purtroppo a sbadigliare, con pezzi spenti e noiosetti che confermano per l’ennesima volta che non bisognerebbe pubblicare dischi di un’ora e passa di durata quando non si hanno idee sufficienti manco per trenta minuti. Nondimeno,
Redeemer of Souls resta probabilmente il miglior lavoro dei
Judas Priest dai tempi di
Jugulator, superiore sia a quel moscio compitino di
Angel of Retribution, primo frutto della reunion con
Rob Halford, che a
Nostradamus, estenuante concept sbrodolone che già avrebbe dovuto far capire ai veterani inglesi che la grandeur epica è nelle loro corde solo fino a un certo punto. E, proprio come avvenne per
Jugulator, l’innesto di un nuovo membro (
Richie Faulkner, sostituto del dimissionario
KK Downing) ha apportato qualcosina in termini di di freschezza, per quanto la band abbia scelto stavolta di non rischiare troppo e muoversi sui rassicuranti solchi degli stilemi classici codificati da
Screaming for Vengeance e
Defenders of the Faith. Lo stesso Halford si mantiene prudentemente sotto tono ed evita prodezze vocali che, dal vivo, non è forse più in grado di garantire. Ho ascoltato pareri molto delusi e riesco a comprenderli solo in parte.
Redeemer of Souls non è chissà quanto meno ispirato di un
13 ed è un ascolto decisamente più gradevole degli indigeribili mattoni simil-prog con i quali ci hanno ammorbato gli ultimi Iron Maiden. Da musicisti con oltre quarant’anni di carriera alle spalle non è lecito pretendere molto di più, soprattutto se si considera che questo album lo hanno fatto soprattutto per loro stessi. I
Judas Priest non hanno certo bisogno di continuare a incidere nuovo materiale per pagarsi l’affitto come i (inserire nome a caso di gruppo di cabotaggio medio/alto, preferibilmente estremo, nato negli anni ’90). Poi, certo, sarebbe meglio se si tenessero lontani dallo studio e si limitassero a suonare i classici dal vivo, finché il fisico glielo consente.
CESARE CARROZZI: il problema è stato quello di aver cominciato l’ascolto con Battle Cry. Che poi è il rischio che si corre nell’avere il lettore in modalità di riproduzione casuale, ovvero o cominci dalle peggiori o dalle migliori del disco. E quindi niente, la prima impressione è stata piuttosto positiva. Cioè, Battle Cry si lascia ascoltare, è costruita sulla scia di Between The Hammer And The Anvil o The Sentinel, quindi inizio cadenzato con sole chitarre, poi sviluppo del brano con tempo medio, assoli carini e voce di Halford a stecca. Ed in Battle Cry c’è tutto questo. Oddio, sicuramente non è al livello delle due che ho citato, però si difende bene, a parte forse la voce del vecchio Rob, di cui parlerò a breve. Poi però ho sentito il resto, e per carità. Nel senso: è bello sentire questi che ci danno dentro quando tre quinti del gruppo è sulla sessantina, il quarto più o meno ha cinquant’anni e l’ultimo arrivato venti di meno, però è appunto bello se poi è vero che ci danno effettivamente dentro. Altrimenti non è bello manco per nulla. Insomma, ad un certo punto o hai davvero qualche cosa di decente da tirare fuori oppure è meglio che lasci perdere la roba nuova e ti dai esclusivamente ai tour celebrativi. Ed il discorso vale ovviamente pure per la concorrenza storica, ovvero gli Iron Maiden, anche se quelli di tour celebrativi ne fanno pure troppi. Ma comunque.
‘Sto disco per quanto mi riguarda ha il tiro di un cavallo morto. Tranne appunto
Battle Cry e, a voler essere di manica larga,
Halls Of Valhalla. Ma poi basta. Halford fa quello che può, ma secondo me non è manco questione d’età anagrafica, è proprio carenza di convinzione, una prestazione col pilota automatico e il limitatore di velocità col passo di un artritico particolarmente mal messo. Basta confrontare la voce del nostro con quella del precedente ed ultimo lavoro solista,
Made Of Metal, non di un secolo fa ma di quattro anni fa, per accorgersi del salto in negativo, dell’abisso di differenza che c’è tra la voce lì incisa e quella su
Reedemer Of Souls (per non parlare della qualità intrinseca dei pezzi, che lì
Made Of Metal è di un altro pianeta proprio). Cioè, nel 2010 aveva già sessant’anni, eh. Non è questione di tracollo negli ultimi quattro anni, è che è proprio un Halford svogliato e poco ispirato quello sull’ultimo Judas Priest, e ovviamente ne risente tutto il disco. Mettici pure che i pezzi non è che di partenza siano poi granché, mettici pure una produzione pessima (e qui sarebbe anche da approfondire il capitolo produzione. Nel senso che produrre un disco non è, ovviamente, come suonarlo. Sono due ruoli totalmente differenti quelli del musicista e del produttore. Uno può avere una grandissima esperienza di lavoro in studio come musicista e comunque non capirci nulla di produzione, ovvero, non avere orecchio per quel particolare ruolo dove a un certo punto devi valutare come suona tutto un disco e non solo tu chitarrista/bassista/batterista/cantante/vattelappesca. Ma purtroppo certi musicisti, soprattutto quelli che poi per lo più compongono, ad un certo punto si mettono in testa che sono diventati, di fatto, degli eccellenti produttori e si mettono dietro il mixer. E non è che ci provano semplicemente, per poi magari rendersi conto che non fa per loro: persistono. Il risultato è che nove volte su dieci se il disco finito non è che suona di merda ma semplicemente molto, molto peggio rispetto all’ultimo che avevano fatto produrre da, che ne so, Chris Tsangarides, è grasso che
cola. E poi quando ascolti un disco qualsiasi di Malmsteen post 2000 e senti quanto suona di merda, e sempre peggio di quello precedente, ti rendi conto che tutti quelli prima dove c’era scritto che li aveva prodotti lui era solo millantato credito. Bel mondo.) con in mezzo lo stesso Tipton, mettici che Richie Faulkner non è ovvimante KK Downing, pur mettendoci del buono, metti questo, metti quello, il risultato è che, personalmente, non ho molto apprezzato ‘sto disco. Anzi, per nulla. Secondo me l’ultimo album buono dei Judas Priest post reunion è
Made of Metal di Halford, e di gran lunga. Io fossi in voi mi sentirei quello e buonanotte, in caso. Poi fate voi.
ROBERTO ‘TRAINSPOTTING’ BARGONE: ho letto la recensione di Carrozzi qui sopra e sono d’accordo più o meno in tutto. Qualche canzone carina c’è, ma il disco è spompo, non tira e non ci prova neanche, Halford è svogliato e la produzione non è il massimo. Sono d’accordo con Carrozzi anche quando dice che il loro miglior disco post-reunion è un disco di Rob Halford, che però per me è Resurrection. Qui in Redeemer of Souls ci sono anche dei discreti picchi: Halls of Valhalla, Sword of Damocles, Down in Flames e un altro paio che sicuramente avranno citato i due stronzi qui sopra, però l’album intero dura tre ore e mezza e dopo un po’ ti si slogano le ginocchia da sole. A volte sembra un disco dei primi anni novanta, quando i vecchi gruppi fracassoni iniziarono a suonare in maniera più semplice e cupa per venire incontro alle esigenze del pubblico dei Nirvana. Per me è inconcepibile sentire un disco dei Judas Priest post-1980 in cui le chitarre non fischino, ma è inevitabile visto lo spirito sommesso di Redeemer of Souls. A mio parere i Judas Priest sono concettualmente finiti con Demolition e tutto quello che è venuto dopo è da considerare come un divertissement tra vecchi compari da non prendere troppo sul serio. In caso contrario, per combattere la nostalgia c’è sempre questo.