di Giuseppe Dentice
Lo scorso 10 maggio si sono svolte in Algeria le elezioni amministrative per il rinnovo dei 462 seggi dell’Assemblea Popolare Nazionale. Come da previsioni, le elezioni hanno visto l’affermazione del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) – partito storicamente vicino all’istituzione militare – e del Raggruppamento Nazionale Democratico (RND), alleato di governo e partito del Premier Ahmed Ouyahia. Nonostante il malcontento sociale e i deludenti risultati dei partiti islamisti, l’Algeria continua a rimanere un caso isolato nel contesto nordafricano e regionale.
Il risultato elettorale
Il Consiglio Costituzionale algerino ha ufficializzato i dati sul voto del 10 maggio assegnando al FLN 220 seggi, al RND 68, alla piattaforma islamista “Alleanza per Algeria verde” – gruppo che comprende i partiti confessionali del Movimento della Società per la Pace (MSP), Ennahda (Partito della Rinascita) ed el-Islah (Partito della Riforma) – 48, al Fronte Nazionale Algerino 9, el-Djaballah (Fronte per la Giustizia e lo Sviluppo) con 7, El Fadjr El Djadid ne guadagna 5 ed el-Menasra (Fronte del Cambiamento) con 4. Il Partito della Libertà e della Giustizia e il Fronte della Nuova Algeria, invece, non hanno ottenuto seggi.
Due dati balzano subito agli occhi: l’alto tasso di astensionismo, superiore al 57% – come confermato anche dai dati ufficiali sull’affluenza al voto (42,90%) forniti dal Ministro degli Interni, Daho Ould Kablia (dato, comunque, ben superiore a quello del 2007 quando si raggiunse il 37% di non votanti) – e la netta sconfitta, quasi in controtendenza con i vicini arabi, degli islamisti. In particolare, quest’ultimi non hanno riconosciuto il risultato uscito dalle urne e hanno minacciato sia il boicottaggio dei lavori della prossima Assemblea Popolare Nazionale, sia il ricorso davanti al Consiglio Costituzionale per ottenere l’annullamento delle elezioni.
Per garantire la trasparenza e la regolarità delle elezioni sono stati presenti 500 osservatori stranieri, tra cui 60 esperti dell’UE e 12 membri del Parlamento Europeo, 132 della Lega Araba, 200 dell’Unione Africana e 10 delle Nazioni Unite.
In particolare, Hanafi Wajih, capo della missione degli osservatori della Lega Araba, e Josè Ignacio Salafranca, capo della delegazione europea, hanno sottolineato la trasparenza di queste elezioni rispetto alle precedenti. Anche il Segretario di Stato USA Hillary Clinton e il Rappresentante per la politica estera dell’UE Cathrine Ashton, hanno elogiato il miglioramento del livello democratico del voto e, in particolare, hanno sottolineato l’elevato numero di donne elette nell’Assemblea Nazionale (145), sintomo, questo, di un “passaggio dell’Algeria verso la strada delle riforme democratiche”.
Pertanto, partendo dal contesto socio-politico nazionale e alla luce della recente tornata elettorale, proviamo a spiegare i perché della mancata vittoria degli islamisti in Algeria.
Il contesto nazionale algerino
Nel gennaio 2011, l’Algeria è stato il primo dei Paesi nordafricani a conoscere quei fermenti popolari che, propagandosi nella regione, hanno portato alla caduta dei regimi in Tunisia, Egitto e Libia. Ma un anno dopo, la Repubblica algerina del Presidente Abdelaziz Bouteflika sembra essere rimasta immune, o quanto meno, solo lambita dagli eventi regionali. Per scongiurare il contagio rivoluzionario e garantire il potere ai militari, il governo ha usato contro i manifestanti “il bastone e la carota”, varando, al contempo, sia un piano quinquennale (2011-2015) da 214 miliardi di euro per la creazione di infrastrutture e la diversificazione dell’economia, sia una serie di misure usate ai tempi del terrorismo del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) per reprimere tutte le manifestazioni contro le autorità politiche e militari.
La ricchezza dell’Algeria, però, ha permesso al governo di contenere le proteste attraverso l’adozione di misure popolari – aumento dei salari e calmierazione dei beni di prima necessità – e timidi accenni di riforme politiche. Tra queste, l’abolizione dello stato di emergenza che vigeva nel Paese dal 1992 e l’autorizzazione alla creazione di nuove formazioni politiche.
Una pace sociale comprata, dunque, grazie alle ingenti entrate derivanti dalle vendite di idrocarburi all’estero, le quali rappresentano il 30% del PIL e il 95% di tutte le esportazioni. Infatti, secondo i dati del CIA World Factbook, l’Algeria è il secondo Paese più ricco d’Africa dopo il Sud Africa e detiene le sedicesime riserve mondiali di petrolio e le ottave di gas, le quali producono entrate complessive pari a 170 miliardi di dollari.
Ma la ricchezza di risorse naturali e le timide aperture riformiste del regime non hanno risolto i problemi quotidiani del popolo algerino: nel 2011, l’inflazione è arrivata al 6%, la disoccupazione è giunta al 10%, mentre quella giovanile ha toccato la soglia del 25% (anche se le statistiche dell’UNDP Arab Human Development Report, forniscono dati nettamente discostanti e pari, rispettivamente, al 25% e a circa il 70%) ed, infine, il debito pubblico è in salita di oltre 5 punti percentuali (25,70%) rispetto al 2010.
Ma l’esigenza di garantire sicurezza e stabilità al Paese, ha permesso al governo di comprare la “pace sociale” dei propri cittadini, addormentando e fiaccando sul nascere qualsiasi forma di protesta sociale.
Le conseguenze del voto e la paura islamista
Le elezioni amministrative 2012 hanno mostrato ancora una volta la mancanza di novità politiche e democratiche in Algeria. Infatti, dal golpe militare del 1992 fino ad oggi, il Paese non ha mai conosciuto vere elezioni democratiche, né tanto meno un autentico processo di transizione politica verso una democrazia presidenziale.
Ad oggi, l’unica novità uscita fuori da queste elezioni legislative è la volontà espressa ufficialmente dal Presidente Bouteflika in un comizio a Setif di non volersi più candidare alle prossime presidenziali del 2014, anche per via del suo sempre più precario stato di salute.
Proprio questo aspetto potrebbe rappresentare una chiave di volta e un serio punto di rottura della “pace sociale” esistente da circa un ventennio nel Paese. Al momento l’unico nome che sembra tenere d’accordo tutte le componenti al potere sembra essere quello del Premier Ouyahia, il quale potrebbe garantire una certa continuità politico-istituzionale con il recente passato.
Tale scelta sembra essere l’unica opzione praticabile per garantire stabilità al Paese e, soprattutto, per prevenire e smorzare sul nascere qualsiasi tentativo islamista di presa del potere. L’esperienza della guerra civile è ancora troppo viva nella coscienza di molti e la paura di un ritorno all’ipotesi islamista farebbe propendere militari e politici verso la scelta di un regime forte e poco democratico, piuttosto che un Algeria nuovamente destabilizzata e territorio di conquista per frange estreme.
Inoltre, la decennale esperienza della guerra civile – la quale ha causato oltre 200mila vittime tra i civili – ha prodotto nelle generazioni nate durante o al termine degli anni Novanta un senso di timore e di rifiuto nei confronti dei partiti islamisti, ritenuti i maggiori responsabili della crisi dell’epoca in quanto non disponibili a cercare un compromesso politico per giungere al potere e in quanto maggiormente propensi all’utilizzo della violenza terroristica.
Pertanto, nonostante il malgoverno dei partiti al potere, il popolo algerino tende comunque a rifuggire al radicalismo islamista e a privilegiare la scelta di un governo FLN-RND, proprio perché questi partiti simboleggiano stabilità e sicurezza. Infatti, FLN e RND hanno impostato le rispettive campagne elettorali sulle paure della popolazione: il ritorno del terrorismo islamista, il rischio di una partizione interna come avvenuto in Libia e, recentemente, in Mali, ed, infine, la paura di avere uno Stato segnato dal disordine interno come sta avvenendo in Egitto.
Anche se in controtendenza rispetto alle recenti affermazioni elettorali in Tunisia, Marocco ed Egitto, la netta sconfitta dei partiti islamisti in Algeria non deve dunque stupire.
Quale futuro per l’Algeria?
Il recente risultato elettorale e gli interventi posti in essere dallo Stato per sopire le rivolte (di cui l’esito scaturito dalle urne rappresenta una diretta conseguenza) hanno mostrato, ad ogni modo, che l’equilibrio interno dell’Algeria resta quanto mai precario e suscettibile di un cambiamento di rotta.
Nonostante la ricchezza di risorse naturali abbia permesso al governo di comprare facilmente la pace sociale, il Paese resta profondamente diviso e percorso da amarezza ed insoddisfazione.
Ma la paura di una destabilizzazione dell’unità algerina è il più importante deterrente sia per la società civile, sia per le forze di governo, le quali, invece, dovranno essere capaci di garantire unità e continuità alla propria azione senza suscitare possibili recrudescenze di un pesante e sanguinoso passato.