di Federica Castellana
In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, lo scorso 20 giugno è stato pubblicato il rapporto annuale dell’UNHCR, Agenzia specializzata delle Nazioni Unite, che ha riportato l’attenzione – almeno per qualche giorno – sulla realtà poco conosciuta e spesso dimenticata delle migrazioni forzate a causa di conflitti armati, persecuzioni o catastrofi naturali. Dai dati record del 2011 è emerso uno scenario allarmante, influenzato da crisi umanitarie già esistenti (Africa subsahariana, Afghanistan, Iraq) e aggravato dalle recenti turbolenze in Nord Africa e Medio Oriente (“primavera araba”, Libia, Siria). Come ha rilevato l’Alto Commissario António Guterres, “Il 2011 ha visto sofferenze di dimensioni memorabili. (…) Possiamo solo essere grati del fatto che nella maggior parte dei casi il sistema internazionale atto a proteggere queste persone sia rimasto saldo e che le frontiere siano rimaste aperte”. Questo sistema internazionale si basa sull’assistenza che da ormai sessant’anni viene fornita in gran parte proprio dall’UNHCR e che progressivamente è stata estesa ad altri soggetti oltre ai rifugiati veri e propri.
L’evoluzione del mandato UNHCR
L’incarico originario prevedeva la tutela giuridica e materiale del rifugiato in senso stretto, il quale «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può, o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale, a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra» (status definito dalla Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati del 28 luglio 1951). In teoria quindi l’UNHCR avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente di coloro che per sfuggire a serie minacce militari, politiche o naturali si spostano e raggiungono un altro Paese. In realtà, nella prassi il mandato si è rivelato più flessibile e si è prestato ad un significativo ampliamento che ha consentito all’Agenzia di intervenire in diversi contesti di crisi e di includere nuove categorie tra i beneficiari della sua attività. Tra questi: gli sfollati interni, che restano nei confini nazionali (i cosiddetti IDPs, Internally Displaced Persons); i richiedenti asilo, che attendono di ottenere lo status di rifugiato; gli apolidi, che non hanno alcuna cittadinanza; e i rimpatriati, ovvero i rifugiati e gli sfollati che chiedono di ritornare nel proprio territorio di origine.
Secondo le statistiche presentate a giugno, durante il 2011 ci sono stati più di 800.000 nuovi rifugiati (dato più alto dal 2000) e circa 3,5 milioni di nuovi sfollati interni (+20% rispetto al 2010), per un flusso totale di 4,3 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria area d’origine o di residenza. Nel complesso, alla fine dell’anno il bacino di riferimento dell’UNHCR era di 42,5 milioni di persone tra rifugiati (15,2 milioni), sfollati interni (26,4 milioni) e richiedenti asilo (895.000); l’organismo è riuscito ad occuparsi direttamente solo di 25,9 milioni (sebbene con un incremento di 700.000 unità rispetto al 2010) oltre ai 4,8 milioni di rifugiati palestinesi che sono di competenza dell’agenzia UNRWA, specializzata nel soccorso in Vicino Oriente.
In tema di rimpatri, il 2011 ha visto rientrare volontariamente a casa 532.000 rifugiati (più del 2010 ma meno in confronto agli anni precedenti) e 3,2 milioni di sfollati (cifra migliore del decennio). L’apolidia resta invece un fenomeno complesso: gli individui privi di cittadinanza sono stati stimati dall’UNHCR in più di 12 milioni, ma sulla base di dati forniti solo da 64 governi.
Tra le tendenze relative ai rifugiati, si segnala la protrazione notevole del loro status: in quasi 3/4 dei casi, questi rimangono per almeno 5 anni in condizioni precarie, in attesa di una soluzione durevole. Nella classifica dei Paesi d’origine, al primo posto si conferma l’Afghanistan (2,7 milioni) seguito da Iraq e Somalia, mentre tra i maggiori Paesi di accoglienza spicca il Pakistan (1,7 milioni), seguito da Iran, Kenya e Ciad: questo dimostra la propensione dei rifugiati a lasciare il proprio Paese per spostarsi prevalentemente, o per lo meno inizialmente, in Stati limitrofi. Per quanto riguarda i Paesi industrializzati, la Germania ha registrato la presenza maggiore di rifugiati (571.000) e il Sudafrica ha ricevuto il numero più alto di richieste di asilo (107.000), con gli Stati Uniti in seconda posizione in entrambe le circostanze e leader nei programmi di re-insediamento.
Attuali zone di emergenza
In Siria gli scontri tra le forze del regime di Assad e i ribelli sono in corso ormai da un anno e mezzo e il numero delle vittime ha raggiunto livelli vertiginosi (più di 100 morti al giorno); tuttavia attualmente nulla fa pensare ad una possibile soluzione del conflitto, specialmente alla luce della recente escalation di violenza a Damasco ed Aleppo [1]. Secondo le ultime stime dell’UNHCR, ogni giorno 500 siriani in media varcano i confini nazionali e fuggono nei Paesi vicini, per un totale di circa 187.494 rifugiati da marzo 2011 (il 75% sono donne e bambini): di questi, 74.112 sono in Turchia, 58.780 in Giordania, 39.506 in Libano e altri 15.096 in Iraq. L’ammontare degli sfollati interni invece si aggirerebbe intorno al milione. Per far fronte a questa crisi umanitaria, l’UNHCR ha approntato un piano di aiuti che prevede lo stanziamento di 193 milioni di dollari entro dicembre 2012 al quale partecipano, oltre a diverse agenzie delle Nazioni Unite (UNICEF, UNESCO, WHO, UNDP), numerose ONG nazionali e internazionali e i governi degli Stati limitrofi; al momento il piano risulta eseguito solo per 64 milioni di dollari (ovvero per il 33%, dati luglio 2012).
La forte instabilità nel nord del Mali, dove continuano i combattimenti tra le forze di governo e i ribelli della tribù Tuareg, ha spostato finora più di 400.000 persone, tra sfollati (166.811) e rifugiati (232.806), spesso famiglie di pastori che hanno portato con sé anche il proprio bestiame. La disponibilità limitata di fondi è uno dei principali problemi: i 49.9 milioni di dollari ricevuti ad oggi (soprattutto da Stati Uniti e Paesi UE) rappresentano solo il 32.5% delle risorse necessarie per l’azione in loco dell’UNHCR. Inoltre, nonostante il miglioramento del primo soccorso, la gestione dei campi d’accoglienza è difficile a causa di minacce come il colera e la crisi idrica-alimentare. Tra l’altro gli stessi Stati confinanti che accolgono i rifugiati maliani (Mauritania, Burkina Faso, Niger, Togo e Guinea) versano in condizioni di povertà e non sempre sono in grado di garantire autonomamente l’assistenza primaria.
Nel Sudan afflitto da anni da dura guerra civile, più di 200.000 persone (la metà dei quali sono minori) hanno abbandonato il Paese per rifugiarsi in Etiopia (oltre 36.000) e nel nuovo Stato del Sudan del Sud (circa 170.00). Qui la situazione è assai critica, con alti tassi di malnutrizione e la minaccia di malattie infettive per mancanza di acqua potabile; in aggiunta, nuovi flussi di rifugiati continuano a raggiungere quotidianamente gli insediamenti, situati lungo pericolose zone di frontiera, con la stagione delle piogge che sta bloccando le infrastrutture già carenti ostacolando l’arrivo degli aiuti umanitari. L’UNHCR sta puntando su campagne alimentari e sanitarie di massa, ma non è dotata di mezzi sufficienti a coprire i bisogni dei rifugiati sudanesi (45,9 milioni di dollari ottenuti rispetto ai 219 milioni richiesti).
La Somalia è ancora la triste protagonista della grave crisi umanitaria nel Corno d’Africa: si scappa, molte volte persino a piedi, da un ventennio di guerra civile e dalle frequenti ondate di siccità che distruggono i raccolti e fanno schizzare i prezzi alle stelle. Attualmente 982.000 sono i somali rifugiati e richiedenti asilo in Kenya, Yemen, Etiopia, Uganda, Gibuti ed Eritrea, dove l’UNHCR guida la fornitura di acqua, cibo, riparo e cure mediche. La violenza persistente nel Paese rende invece difficile l’assistenza agli sfollati interni, stimati in circa 1,3 milioni. Per quanto riguarda i fondi, anche in questo caso l’Agenzia si trova a fare i conti con un gap rilevante tra le somme previste dai piani operativi (48 milioni di dollari) e i contributi effettivamente ricevuti (13 milioni).
La posizione dell’Italia
Nel nostro Paese i rifugiati attuali sono circa 58.000, molto meno che in Germania, Francia o Regno Unito. Nel 2011 sono pervenute oltre 37.000 richieste di asilo, di cui il 44% ha ottenuto esito negativo (dati Ministero degli Interni). Va ricordato in proposito che proprio negli ultimi anni l’Italia, data la sua particolare esposizione geografica, ha risentito profondamente degli avvenimenti in Nord Africa: migliaia di persone provenienti soprattutto da Tunisia, Libia ed Egitto sono sbarcate a Lampedusa e in altre località delle regioni meridionali (più di 60.000 solo lo scorso anno) e molte sono tuttora sospese in centri d’accoglienza in quanto non è stato riconosciuto loro alcun tipo di protezione internazionale né sono state avanzate proposte alternative. Tra l’altro la gestione dell’emergenza, in termini sia di accesso al territorio che di prima accoglienza, non è sempre stata adeguata e ha provocato diverse tensioni a livello nazionale e internazionale (tra queste, la sentenza Hirsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per i respingimenti indiscriminati effettuati in mare [2])
In materia di finanziamenti, nel 2011 lo Stato italiano ha destinato all’UNHCR 7,8 milioni di dollari piazzandosi al 19° posto nella classifica mondiale di donatori, in progressivo calo rispetto agli anni precedenti. Altri 13 milioni di dollari sono stati versati da fondazioni private, ONG e dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR).
D’altronde tutte le emergenze in corso dimostrano che al di là degli appelli dei vertici dell’Agenzia alla responsabilità, all’empatia e al buonsenso [3] [4], il perno del sistema di assistenza ai rifugiati rimane l’azione concreta e tempestiva, che richiede un forte contributo materiale da parte del maggior numero possibile di soggetti pubblici e privati.
* Federica Castellana è Dottoressa in in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Studi Europei (Università di Bari)
[1] Dessi A., Siria, il peggio deve ancora venire, AffarInternazionali, 02.08.2012
[2]Polchi V., Strasburgo, l’Italia condannata per i respingimenti verso la Libia, la Repubblica, 23.02.2012
[3]Guterres A., Nouveaux défis, Le Monde Diplomatique, giugno 2012
[4]Jolles L., Giornata Mondiale del Rifugiato : « Nessuno sceglie di essere profugo », la Repubblica, 20.06.2012