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L’etnico

Da Lollychant @rossellaneri

Dal sushi restaurant per le colazioni di lavoro da 300 euro a testa alla causa con il vicino pakistano perché l’ascensore puzza di cipolla e cannella, l’etnico fa parte del nostro quotidiano. Ma che andare a cena al ristorante etnico sia anche una cosa da gourmet funziona solo dal 2008 con la Michelin Guide New York City, quando il consiglio supremo della guida, volendo costituire una sezione di ristoranti sotto i 25 dollari a testa, si è trovato quasi costretto a inserire una cinquantina di cucine che solo l’anno prima non avrebbe considerato.

Così, se negli anni Ottanta in Italia usare il curry per condire le verdure era una cosa da gente con qualche grillo di troppo per la testa, oggi invece non sapere distinguere un Masala di qualità da uno ‘da europei’ è cosa sufficientemente disdicevole, almeno nel mondo dei golosi. Chi non ha mai passato le forche caudine dell’amica globalizzata che ti propone la cena messicana a base di Uncle Bens non può capire.

Ma proviamo a considerare che un brasiliano che ci vede armeggiare al supermercato tra gli ananas e i manghi prova per noi lo stesso istinto di compassione che noi proviamo alla vista di un tedesco che scuoce la pasta e l’aggroviglia nel piatto insieme con i würstel.

Diciamocelo però una volta per tutte: oggi il sushi è completamente superato. Ma l’asiatico resta l’unica categoria di etnico su cui puntare comunque, se Vissani prepara la sua salsina per l’arrosto con una riduzione al tè verde e M. Aoki, uno dei pasticceri più alla moda di Parigi, confeziona i suoi macarons con il Macha.

Oggi poi siamo europeisti, la generazione Erasmus, quindi tendiamo a considerare un po’ meno etnico un ristorante spagnolo o uno greco. Da quando poi nelle nostre vite è arrivata l’Ikea, anche la cucina svedese è entrata a far parte della nostra tavola. Alzi la mano chi non ha mai provato la salsina di mirtilli, che ha un nome impronunciabile (Lingonsylt), ma è perfetta con il lesso di Natale.


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