di Stefano Lupo
Non devono essere stati giorni facili per il Presidente Rouhani e il Ministro degli Esteri Zarif. Man mano che al tavolo negoziale tra Parigi e Vienna ci si rendeva conto dell’inconciliabilità delle posizioni sulle questioni più stringenti tra le parti in causa, in Iran scoppiava la polemica alimentata da chi sostiene che la posizione troppo morbida di Zarif già un anno fa avesse predisposto il Gruppo 5+1 (il Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania) a una linea d’azione più intransigente, vedendo Teheran più disponibile al compromesso.
E pensare che più di una volta Zarif ha cercato di dissuadere il Presidente Rouhani dal rimanere troppo allineato ai dettami della flessibilità eroica della Guida Suprema Khamenei. Il Presidente, eletto più di un anno fa proprio grazie al suo equilibrio tra le varie istanze, non se l’è sentita di sbilanciarsi troppo, con il rischio di cadere anima e corpo tra le braccia dell’ala dura, religiosa e governativa (la battaglia per la nomina del suo Ministro della Scienza, continuamente respinto, ne dà ampia dimostrazione).
Più della paura di perdere il favore di Khamenei, o di scontrarsi definitivamente con l’Ayatollah Mesbah-Yazdi e con il vertice del Consiglio dei Guardiani, Jannati, con alle porte le elezioni parlamentari nel 2015, a frenare Rouhani da un approccio totalmente conciliante con le richieste del 5+1 è stata l’eterna contraddizione interna alla Repubblica Islamica dell’Iran, la continua oscillazione tra potere pragmatico e agente rivoluzionario, tra esigenze secolari e necessità religiose, tra posizioni di forza nella regione e forti debolezze strutturali.
Gli aspetti ritenuti dall’Iran tra i più controversi dell’accordo proposto dalla controparte, in particolare la lunghezza dell’intesa stessa, non meno di dieci anni, unita a solo parziali riduzioni delle sanzioni (da eliminare totalmente solo al momento dell’adempimento completo da parte persiana di tutti gli obblighi contrattuali a carico) sono rimasti particolarmente indigesti al corpo negoziale messo su da Rouhani e la decisione di prolungare i tentativi diplomatici di negoziato fino al 30 giugno 2015 (sperando nel forte contributo di intermediari di livello, come il Sultano d’Oman, Qaboos) è stata vista come l’unica opzione possibile.
Il rinvio, però, oltre a rendere molto problematica la posizione americana, visto l’incombente cambio di leadership al Senato, con i Repubblicani pronti dal primo gennaio a farsi sentire, rende certamente più difficile la posizione dell’Iran di Rouhani. Il canovaccio del “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”, che sta tanto a cuore, comprensibilmente, a Israele e Arabia Saudita, non va certo bene a Teheran, per una serie di motivi complicati ma logici nella loro essenza.
Quando si ha a che fare con l’Iran, bisogna stare molto attenti ai messaggi e ai segnali che vengono lanciati, ai comunicati, alle interviste, specie in prossimità di grandi, in potenza, eventi internazionali. L’Iran, con una popolazione estremamente giovane, che non ha nessun ricordo o quasi dell’epoca della Rivoluzione, solo in un secondo momento divenuta islamica, è bene ricordarlo, ma poco rimembra anche della guerra gloriosa contro l’Iraq, teme che le difficili condizioni economiche frutto della combinazione letale delle sanzioni occidentali e delle sciagurate passate scelte di Ahmadinejad, facciano perdere l’appoggio complessivo della propria opinione pubblica, con o senza l’attento controllo della milizia Basiji. Ecco il perché delle richieste del Ministro del Petrolio Zanganeh fatte al vertice OPEC, proprio a Vienna, domenica 23 novembre. L’Iran ha sostenuto che il crollo della quotazione OPEC sia stata una macchinazione ordita dai sauditi e ha richiesto una riduzione consistente della produzione da parte di Riyadh. Difficile immaginare una risposta positiva, tanto più che la richiesta iraniana suona come un’intrinseca ammissione di debolezza strutturale. Chiedere al proprio nemico di farti un favore in prossimità di un possibile accordo che potrebbe danneggiarlo non è, ragionevolmente, un’idea costruttiva.
Vi è poi il macro attore politico che viene sempre tirato in ballo al momento di un negoziato internazionale, ossia la Guardia della Rivoluzione. Il corpo dei Pasdaran non si è certo risparmiato in questi giorni, in primo luogo attraverso le dichiarazioni del comandante in capo Jafari, che a Qom per la commemorazione dell’anniversario della Guerra contro l’Iraq aveva sostenuto che un accordo sul nucleare non sarebbe stata una retrocessione degli ideali rivoluzionari iraniani; secondariamente, ma non meno importante, attraverso la rete semi ufficiale IRNA, l’IRGC ha diffuso la notizia dell’avvenuta consegna a Hezbollah in Libano, domenica 23 novembre, un giorno prima della deadline del negoziato, di missili FATEH-110, in grado potenzialmente di colpire la città di Dimona, nel sud di Israele. Questi due avvenimenti legati ai guardiani della rivoluzione sembrano in contrasto, ma risultano invece immagini ben chiare del prisma iraniano: arrivare a un negoziato da un lato tendendo la mano e affermando di non sentirsi sminuito, dall’altro ribadendo di essere in grado di arrivare con convogli di armamenti in Libano passando per Siria e Iraq, l’autostrada della difesa in profondità iraniana (fatta di continui “allerts” ai propri “avversari”) sono azioni tipiche di un Iran incapace di districarsi tra le proprie contraddizioni di Stato forte ma allo stesso tempo estremamente debole.
Resta da vedere come si evolveranno, nel caso, i rapporti tra Iran e la “coalizione” anti Stato Islamico promossa da Obama; le milizie sciite sostenute dalle forze al-Quds di Suleimani, il grande burattinaio iraniano delle azioni estere dell’IRGC, stanno respingendo le truppe di al-Baghdadi, ma per l’Iran, il fronte più problematico non è certo quello bellico contro IS quanto quello negoziale.
* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)
Potrebbero interessarti anche:
Iran: Rouhani, un anno da Presidente
L’accordo sul nucleare iraniano è parte di una macro-strategia USA…
Le nuove sfide della politica estera iraniana