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L’instabilità del Bahrain: il passato chiave di lettura per il presente

Creato il 13 marzo 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Elisa Gennaro

L’instabilità del Bahrain: il passato chiave di lettura per il presente
Le storie dei Paesi del Golfo non differiscono molto tra loro: tutti hanno la stessa matrice culturale, l’intera penisola è stata crocevia delle stesse tribù o è ricaduta sotto i domini persiani e poi arabo-islamici, e tutti sono stati fatti oggetto dei disegni delle potenze coloniali per rispondere a una comune visione geopolitica. Allo stesso modo, questi Paesi sono stati indirizzati di concerto verso il medesimo destino in quanto a forma di potere governante o per composizione demografica (abitati da popolazioni arabe, ma anche dalle origini persiane). Per tutti questi aspetti, le nazioni del Golfo oggi potrebbero subire, ancora una volta, la stessa sorte.

Precedenti storici e aspetti costitutivi del Bahrain. Per comprendere questo territorio oggi è necessario anzitutto far luce sulle caratteristiche storico-culturali dell’arcipelago composto di 33 isole e di cui il Bahrain, insieme a Sitra e Muharraq, è quella più importante.

bahrain map
E’ in maniera scontata che l’intero territorio, di appena 637 Km2, viene associato al resto dei Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC) per via delle sue rendite petrolifere, e questo nonostante oggi il Bahrain sia l’unico tra questi ad affrontare una seria crisi di riserva dell’oro nero, poggi quasi esclusivamente sugli aiuti sauditi e faccia affidamento altrettanto integralmente sulla difesa militare statunitense. Se è vero che la geografia segna destino e fortuna geopolitica di una realtà statale, la storia del Bahrain è contraddistinta anche dalla sua contiguità con l’Iran, affacciandosi sul Golfo Persico, ventre geografico che per ragioni di relatività storica viene altresì chiamato Golfo Arabico.

Raggiunta l’indipendenza dal protettorato britannico nel 1971, ultimo di una lunga successione di domini stranieri, difficilmente l’identità storica del Bahrain si è mai separata da quella persiana, in ragione della composizione della sua popolazione, delle sue origini e dei forti legami culturali che vigono ancora oggi tra parte della maggioranza sciita e l’Iran. Questa introduzione si rende indispensabile per cominciare a inoltrarci nell’arcipelago Bahrain, anche se in questo percorso essa troverà motivi per essere estromessa dal nucleo esplicativo degli eventi del Bahrain contemporaneo.

Sin dai tempi antichi l’agglomerato di isole e isolotti è stato il passaggio di domini fortunati: portoghesi e dinastie persiane (Safavidi prima e Qajar poi), ‘Oman e tribù degli Al-Khalifa (i regnanti del Bahrain di oggi), Ottomani e Britannici per ultimi. Il Bahrain non conosce oggi proteste e attriti interni, ma i malcontenti verso questo o quel dominio hanno caratterizzato tutta la sua epoca moderna. Con l’arrivo dei Britannici e con l’imposizione di un modello amministravo che gli abitanti del Bahrain giudicavano non imparziale, si ebbe la prima protesta pubblica. Era il 1895 quando in forma punitiva gli Inglesi catturarono ed esiliarono nelle loro colonie indiane molti abitanti del Bahrain insieme a numerosi altri mercanti locali che avevano osato lanciare un boicottaggio degli inglesi.

Una politica di impedimento di una formazione nazionale autonoma, o “politica di spersonalizzazione dei Paesi del Golfo” come hanno definito alcuni analisti quella britannica nel Bahrain, ha compromesso uno sviluppo pienamente indipendente della nazione. Furono gli Inglesi stessi ad avviare una campagna di rivolte interne e settarie al fine di denigrare il desiderio di piena indipendenza degli abitanti del Bahrain. Per fare solo un esempio: nel momento in cui queste rivolte furono espressamente indirizzate contro gli Inglesi, questi lanciarono una politica di de-iranizzazione, facendo emigrare numerosi Arabi, cittadini di altri Stati mediorientali o lavoratori dalle proprie colonie, e favorirono il formarsi di politiche del doppio standard sulla base dell’appartenenza religiosa. A partire da quelle dinamiche la monarchia al potere in Bahrain continua a governare con la stessa disparità socio-economica che rischia di far precipitare il Paese, visto che la componente discriminata è quella maggioritaria sciita.

Relazioni di questa natura hanno prodotto una situazione cronicamente implosiva, e ciò non per una incapacità della popolazione alla normalizzazione. Ancora oggi, infatti, gran parte degli abitanti si esprime a favore dell’indipendenza del Paese, tutti sotto la stessa bandiera, similmente a quanto emerse dal plebiscito ONU del 1970 con cui Inglesi e Iraniani posero fine alla lunga diatriba territoriale – oggi riemersa in campo iraniano. Professionisti dell’informazione, attivisti ed esponenti politici confermano tale visione, sono a favore dell’indipendenza e della libertà decisionale nelle relazioni internazionali del Paese, e continuano a non negare la fedeltà a una famiglia regnante, seppur espressione della minoranza sunnita, nella misura in cui essa garantisca un dialogo e presti ascolto alle richieste popolari: processo democratico trasparente ed equa distribuzione di poteri e competenze.

L’allineamento che gli Al-Khalifa scelgono ora con l’Arabia Saudita, la profonda relazione storica con l’Iran che negli anni Cinquanta ne fece la sua XIV provincia, e l’attenzione a non tradire mai l’alleato statunitense, rischiano di gettare il Paese nelle braccia dell’uno o dell’altro.

La posta in gioco è altissima, si rischia la deposizione dall’interno, ma anche un colpo di Stato architettato dal vicino al quale si sceglie di voltare le spalle. Arabia Saudita, Iran e Occidente affiancano il Re nella sua azione di governo, lo stesso che i presunti alleati potrebbero voler detronizzare pur di riuscire ad annettere l’arcipelago la cui posizione è altamente strategica nell’ipotesi di un confronto armato nella regione tra Israele, America e Iran, come lo è per il controllo egemone delle risorse.

Mentre all’esterno si decide il futuro del Bahrain, il rischio di una guerra civile è reale. Insieme alla Siria, il Bahrain pervade la cronaca globale solitamente per gli arresti politici, le torture e i processi illegali presso corti militari, con l’impunità per militari e poliziotti che commettono tali reati, per gli ergastoli e le pene di morte arbitrariamente inflitte, per le persecuzioni di esponenti dell’opposizione e attivisti, per gli oltre ottanta assassinii e per la dura repressione che dal 14 febbraio 2011 è nota per gli eventi di Piazza Perla. Quest’ultima è stato il luogo dove sono riapparse le frustrazioni di decenni, dove il popolo del Bahrain si è ritrovato per dare forma e visibilità allo scontento socio-economico, per chiedere giustizia sociale e riforme politiche (Costituzione e legge elettorale). Non è un caso se quel 14 febbraio doveva coincidere con due importanti date: l’anniversario della transizione politica e del ripristino della Costituzione (2002) e quello del referendum che l’aveva reso possibile (2001).

Sebbene un senso di giustizia complessiva accompagni queste osservazioni, non si vogliono qui affrontare quelle forme di violenza promosse dal regime del Bahrain e che richiamano questioni di Diritti Umani ampiamente riprese dalla stampa. Non appiattiremo il discorso sulla reiterata tesi di un conflitto settario tra sciiti e sunniti del Bahrain, formula di comodo propria delle versioni consolidate prodotte dal regime e sostenuta da commentatori esteri.

E’ ragionevole ammettere che a distanza di due anni dallo scoppio dei disordini in Bahrain, le due comunità sciita e sunnita non convivano serenamente, ma le ragioni di queste tensioni restano di natura puramente socio-economica, raccontano storie di disparità, di diritti iniqui in quanto ad accesso al lavoro e a servizi governativi o a politiche per l’alloggio, e sono legate alla strategia di potere che, adottando politiche di immigrazione di elementi esogeni, costituiscono una minaccia concreta per gli sciiti, componente maggioritaria della popolazione del Bahrain. Questi ultimi respingono la facile accusa di una regia iraniana della rivolta (sebbene l’Iran abbia espresso il proprio sostegno al popolo e abbia condannato l’intervento armato del GCC del 14 marzo 2011 guidato dall’Arabia Saudita) e tengono a precisare la profonda diversità dello sciismo che essi professano. Quello del Bahrain è privo di una leadership religiosa del rango “politicizzato” come la forma vigente in Iran.

Costituendo poco più del 70% della popolazione, gli sciiti del Bahrain chiedono una forma democratica piena o più realista perché maggiormente rappresentativa. La politica del al-Tajnis as-Siyasi (concedere la cittadinanza politica) con cui la monarchia incoraggia un’immigrazione da altri Paesi arabi sunniti e dall’Asia per offrire condizioni di lavoro e di vita agevolati fino alla concessione della cittadinanza, è diretta a contenere la spinta interna. Questo il popolo del Bahrain lo sa bene, ma sono i più a continuare a sostenere la tesi del conflitto settario. La protesta condotta dalla popolazione sciita riunita nelle varie espressioni con le “società politiche” (i partiti sono messi al bando per legge) non solleva questioni di ordine morale ma appunto di giustizia sociale.

Nell’ambito della repressione delle proteste iniziate in Piazza Perla, repressione che non ha risparmiato altri distretti del Paese, la presenza e i ruoli assegnati agli elementi esterni sono saltati fuori nell’azione dei mercenari e delle Forze di difesa del Bahrain, soggetti reclutati o parte dell’immigrazione proveniente da Pakistan, Giordania, Siria e Yemen. Non si può certo affermare che quella della concessione della cittadinanza sia una politica che genuinamente elevi il Bahrain di fronte alle critiche che investono Qatar ed Emirati in materia di immigrazione perché l’assenza di integrazione sociale ed evidenti mire strategiche per la “sunnitizzazione” demografica smascherano eventuali presunzioni provenienti dalla casa reale nei momenti di maggiore vulnerabilità.

Se non si risponderà con politiche concrete, resta improbabile che gli sciiti ri-accorderanno fiducia e lealtà al governo. Inoltre, il passaggio nel 2002 del Bahrain da Emirato a Monarchia Costituzionale non ha comportato mutamenti di sostanza e il potere resta assoluto nelle mani dell’estesa famiglia Al-Khalifa che, per Costituzione, è in grado di scavalcare la competenza legislativa delle due Camere. Un caso clamoroso è quello della carica del premierato dello zio del Re, Khalifa bin Salman Al-Khalifa, dal 1971 Primo Ministro, il “più longevo” nella storia umana. Tra gli interventi e le reazioni di governo rimasti nella formalità vi sono le raccomandazioni della Commissione d’Inchiesta Indipendente del Bahrain volute dalla Comunità Internazionale allertata sui Diritti Umani e rimaste lettera morta, e il tanto ricercato Dialogo Nazionale che stenta a prendere forma per diffidenza e per il protrarsi della repressione. Voluto per la prima volta a pochi giorni dal 14 febbraio 2011, questo tavolo di concertazione oggi raccoglie gran parte dell’opposizione, anche quella componente politica che aveva ritirato la fiducia al governo nelle ultime elezioni (si cita la decisione del blocco maggioritario al-Wifaq) e che, nel mezzo della violenza odierna, adotta prudenza.

Tutte queste considerazioni valgono a dire che, fino a che le richieste sociali di coloro che protestano in Piazza Perla non saranno accolte, la maggioranza della popolazione del Bahrain non tornerà a dimostrare piena lealtà alla casa regnante. Resta determinato nel tenere le distanze dai tavoli politici il gruppo apartitico dello Youth Coalition del 14 febbraio (quelli del celebre slogan Sumud “determinazione”), che mette insieme sciiti e sunniti, operativo sui Social Media e al quale va il grande merito di aver internazionalizzato la causa del Bahrain.

Se non fosse per le scelte discriminanti volute dagli Al-Khalifa, la dialettica politica interna costitutiva del Bahrain potrebbe essere fortemente costruttiva. Al contrario, la minoranza al potere non riesce ad ascoltare le istanze popolari neanche di fronte alla lealtà accordata dalla maggioranza sciita, e continua a mantenere una netta separazione nella società. Gli sciiti sono assenti dai posti dirigenziali e governativi, vivono sotto un profilo discriminante rispetto alla privilegiata minoranza dei sunniti e sono il costante oggetto di persecuzione con licenziamenti di massa per ragioni settarie e faziose.

A causa delle mire egemoni dei vicini – Arabia Saudita e Iran anzitutto – le aspirazioni del popolo del Bahrain rischiano di essere soffocate e di essere ipotecate. Spostare la pedina Bahrain fa guadagnare più di una mossa sullo scacchiere del Golfo e la vulnerabilità economico-finanziaria del Paese, insieme alla sua composizione demografica, motivo di estrema vulnerabilità e facili macchinazioni, sono il terreno dell’impopolare politica degli Al-Khalifa che guardano principalmente alla propria sopravvivenza. Si veda l’Iran, ad esempio, che torna a rivendicare presunti diritti storico-culturali sul Bahrain ogni volta che riemerge la questione delle isole Tanab e Abu Musa con gli Emirati.

Un altro aspetto che completa il quadro è dato dal non aver mai fatto esercizio politico e di governo in maniera autonoma, se non su suggerimento dei consiglieri britannici un tempo e oggi allineati sulla politica del GCC, o degli Stati Uniti. Pesano in questo processo la dipendenza finanziaria dall’Arabia Saudita e quella dagli USA in materia di difesa.

Sono due i livelli sui quali da due anni si sta consumando la rivolta in Bahrain; uno è di ordine socio-politico e svela la vera posizione della sua composita popolazione, l’altro è di ordine territoriale e si riferisce alla sua speciale ubicazione, realtà che ci riporta al passato. Ancora una volta, spetta ai Britannici il primato di aver creato uno “Stato confusionale” con ripercussioni gravi per estensione e per prospettive di risoluzione.

Quando lo scenario diventa più incerto o quando si spostano le strategie per la difesa o per l’egemonia delle risorse, riemergono tutte le contese territoriali scaturite dalle alleanze strette a fine ‘700 tra gli Inglesi e le tribù locali più influenti. Si citano quelle tra Bahrain e Iran, tra Emirati e Iran, tra Qatar e Bahrain, tra Arabia Saudita e Iran, tra Kuwait e ‘Iraq, tra Arabia Saudita, Abu Dhabi e ‘Oman, tra ‘Oman e Yemen.

* Elisa Gennaro è giornalista pubblicista e Dottoressa in Lingue e Civiltà Orientali (Università “La Sapienza”)


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