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L’Iran al guado. La posizione di Teheran nel negoziato sul nucleare

Creato il 05 marzo 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Stefano Lupo

Vi è qualcosa di molto particolare nel discorso che il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha tenuto il 3 marzo al Congresso USA. Pressoché monotematico, benché si sapesse già in anticipo, l’attacco a tutto campo contro il possibile accordo internazionale legato al nucleare della Repubblica islamica dell’Iran rivela più della preoccupazione d’Israele per una siffatta congiuntura a cui si oppone da sempre.  Nello spirito, nel tono di voce, nell’atteggiamento di Netanyahu si colgono i segni quasi di una battaglia finale per cercare di strappare a Washington un’improbabile inversione di tendenza. Certamente, questa mossa alla brinkmanship è dettata dalla preoccupazione per la tornata elettorale del prossimo 17 marzo, nella quale la sorte potrebbe non essere benigna per l’attuale Primo Ministro. Tuttavia, a muovere lo scongiuro di Netanyahu è soprattutto la dolorosa consapevolezza che agli occhi dell’amministrazione Obama, e non solo di essa, l’antagonismo di Tel Aviv contro l’Iran risulti superato, se non controproducente, nelle dinamiche regionali attuali.

Vi è più di una ragione per ritenere che a Teheran abbiano apprezzato, e non poco, quanto detto da Obama per sintetizzare la venuta non richiesta, almeno dal Presidente, di Netanyahu. “L’esercizio di retorica” del Premier israeliano, secondo Obama, non è assolutamente in grado di sovvertire l’iter avviato al tavolo negoziale. I colloqui, così riporta Fars News, riprenderanno il 15 marzo, a testimoniare la volontà delle parti in gioco, i 5+1 e l’Iran, di addivenire a un punto di incontro che, se non in grado di accontentare tutti, almeno capace di non scontentare nessuno, tranne ovviamente Israele.

La situazione non è ad ogni modo così lineare, e se l’Israele dell’implorante Netanyahu si muove rozzamente per provare a ribaltare le dinamiche avviate, altri attori sono in gioco nella partita a scacchi per sostenere o impedire il negoziato. Il giorno dopo l’intervento di Netanyahu al Congresso, il Segretario di Stato USA John Kerry è volato in Arabia Saudita, con l’obiettivo dichiarato di provare ad ammorbidire la posizione di Re Salman, che si muove molto nell’ombra regionale ma rimane vigile nell’ostilità a Teheran. Tutto ciò nonostante l’Ayatollah Rafsanjani abbia provato a stendere la mano ai Saud affermando che la stabilità dell’area mediorientale dipende ed è possibile solo in caso di accordo Iran-Arabia Saudita. Riyadh non sembra rispondere, almeno al momento, all’implicito invito ad un’apertura di dialogo con l’arcinemico, anzi. La convocazione in terra saudita dell’alleato pachistano, il Primo Ministro Mian Muhammad Nawaz Sharif, sembra essere dettata dal desiderio di verificare la bontà della propria forza di contenimento a Teheran.

Sul fronte interno iraniano, nonostante i giornali conservatori abbiano calcato molto la mano sui toni usati da Netanyahu, com’era prevedibile, i rapporti tra la Guida Suprema Khamenei e il Presidente Rouhani appaiono saldi, seppur non si sa ancora per quanto. La fragilità della condizione economica del Paese, aggravata dalle sanzioni e dal calo delle quotazioni del greggio (inoltre l’India ha deciso di ridurre le proprie importazioni di idrocarburi) appaiono come una sufficiente spinta al lavoro congiunto. Rimangono tuttavia alcune difficoltà importanti, soprattutto nell’approccio iraniano in questi mesi di negoziato. L’Iran vuole vivere questo tentativo di accordo nel rispetto della sua dignità internazionale e peso regionale. Non vuole, in altri termini, che si pensi che Teheran desidera un appeasement con i suoi partners di negoziato perché spinto da necessità, ma aspira a che il gesto persiano sia più interpretato come una concessione per mantenere la stabilità regionale (senza contare che a livello politico interno il desiderio di ordini atomici non sembra neanche contemplato).

L’azione iraniana a tutto campo va dall’accordo reiterato con la Russia il 20 gennaio scorso per una cooperazione bilaterale in ambito di sicurezza, alla pressione sul fronte iracheno per contenere l’avanzata dello Stato Islamico (tanto che a Tikrit gli americani non si sono dimostrati troppo animati da combattere al fianco delle milizie sciite sostenute da Teheran), fino al legame con gli Houthi in Yemen. Il punto è proprio questo: da nessuna parte si è disposti ad arrivare alla stipula del negoziato avendo sacrificato la propria posizione strategica; da un lato gli americani non vogliono rendere “fondamentale” l’azione iraniana contro l’IS, combattendo assieme alle milizie sciite irachene, dall’altro, soprattutto l’Iran, come detto, non vuole sminuirsi al tavolo negoziale, ma così facendo mantiene viva l’aurea di “agente d’instabilità regionale”, ora soprattutto in Yemen.

Quanto sta avvenendo a cavallo tra Iraq, Siria e Libia, con la crescente faglia di sicurezza in Egitto, mantiene viva la paura del jihadismo radicale sunnita, ma i fatti dimostrano, tra Israele, Arabia Saudita, USA e Iran, che un IS non basta per unire – si chieda al Qatar. Occorre che almeno due di questi grandi attori in gioco, Washington e Teheran, stringano i denti, nonostante la reciproca opposizione interna. Il dado non è ancora tratto.

* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)

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Photo credits: Stratfor (Lior Mizrahi/Getty Images, Spencer Platt/Getty Images, Jewel Samad/AFP/Getty Images)

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