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L'oro nero dell'Angola

Creato il 20 ottobre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Antonio Scarazzini 



Questo articolo è stato selezionato come articolo di apertura di Paperblog , il 21.10.11

L'oro nero dell'Angola

Secondo produttore africano di petrolio nel 2010 e settimo tra i Paesi OPEC, organizzazione di cui fa parte dal 2007, conuna crescita media del PIL che tra il 2006-2010 si è attestata all’11,3%: l’immagine dell’Angola resa attraverso i dati statistici delinea i tratti di una delle migliori performance di sviluppo sinora realizzate nel contesto dell’Africa Sub Sahariana. Insanguinata da una guerra civile iniziata con l’indipendenza del 1975 e terminata solo nel 2002, l’ex colonia portoghese ha descritto nei suoi primi dieci anni di pacifica esistenza una traiettoria di crescita imperniata quasi totalmente sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi offshoree su un rapporto di mutua cooperazione con la Cina, le cui banche e multinazionali hanno agito in suolo angolano con modalità innovative rispetto ai grandi gruppi occidentali del petrolio o alle organizzazioni internazionali a carattere economico. 

La Cina e il boom petrolifero di Luanda

L’avvento dei capitali cinesi in Angola, e più in generale nell’Africa Sub-Sahariana, trova la sua ragion d’essere nella ricerca di fonti di approvvigionamento petrolifero che aumentassero la diversificazione dei fornitori di Pechino, da sempre legata ad Arabia Saudita ed Iran. Il costante aumento delle esportazioni di greggio africano verso la Cina è andato di pari passo con l’apertura di diverse linee di credito (aiuti bilaterali, finanziamenti da parte di istituti di credito, prestiti) che hanno convogliato in Angola oltre 7 miliardi di dollari, decisivi per l’incremento esponenziale degli scambi commerciali tra i due Paesi e per la crescita dell’oltre il 10% del PIL: la logica della partnership sino-angolana sembra rispondere quella logica di “win-win cooperation” che Pechino ha assunto come modello di sviluppo da proporre in particolare agli Stati africani, interessati a ricevere capitali cinesi slegati dai piani di riforme strutturali richiesti dal FMI, ed a ripagare Pechino con larghe forniture di idrocarburi. In un contesto fortemente controllato dalla presenza di colossi come Chevron, Exxon, Total, BP ed Eni, l’avvento dei gruppi petroliferi cinesi CNOOC (China National Offshore Oil Corporation) e Sinopec (China Petroleum & Chemical Corporation) assume tuttavia dimensioni ancora piuttosto limitate in termini assoluti: esse partecipano per il 20% allo sfruttamento del blocco 32 e Sinopec condivide con BP quello del blocco 18. Tuttavia l’influenza è molto più pervasiva se si considera come la progressiva concessione di diritti di sfruttamento abbia trovato corrispondenza nell’accensione di prestiti e crediti da parte della China Exim Bank diretti a progetti di ricostruzione. A ciò si aggiunge l’avvio nel 2004 della joint-venture fra Sonangol (45%), compagnia nazionale angolana, e Sinopec (55%): la Sonangol-Sinopec International ha, infatti, portato avanti, tra il 2004 ed il2007, l’acquisto di quote di esplorazione nei blocchi 3/05 e 3/05A, in cui è attiva anche la sussidiaria China Sonangol, facendo il proprio ingresso nello sfruttamento dei blocchi 17/06 e 18/06 con un’offerta di bonus d’uscita che ha superato il miliardo di dollari. Da uno studio congiunto in seno alla joint-venturescaturisce anche il progetto da tre miliardi di dollari di costruzione di Sonaref, raffineria petrolifera situata nella zona di Lobito, che dal 2007 è passata in piena gestione alla sola Sonangol; dopo vari ritardi la costruzione è stata avviata proprio nel corso di quest’anno e si prevede che le attività possano avere inizio dal 2014, con una potenzialità di raffinazione che dai 150.000 barili al giorno potrà espandersi sino a 240.000 una volta che gli impianti saranno portati a pieno regime. L’importanza di Sonaref emerge se si nota che l’Angola è di fatto importatore netto di energia, costretto ad acquistare petrolio raffinato per oltre 1,6 miliardi di dollari a fronte di una capacità di raffinazione interna che ora si attesta su 37500 barili al giorno, pari al 30% dell’intero fabbisogno. E’ anche in forza di questi numeri che l’Angola può competere con la Nigeria per il primato della produzione inAfrica. Recuperando dalla caduta dei prezzi nel 2009, i dati dell’African Economic Outlook prevedono un rialzo dai 1,7 milioni di barili al giorno del 2010 ai 2,05 del 2012, confermando un trend che ad inizio 2011 ha portato il Paese a scalzare l’Arabia Saudita dal primo posto fra i fornitori della Cina: con 3,3 milioni di tonnellate l’Angola copre, infatti, circa il 19% delle importazioni cinesi, in crescita del 53% su base annuale, prospettando, inoltre, un aumento del PIL in linea con i rialzidelle quotazioni del greggio e con l’incremento delle esportazioni.

Scarsa diversificazione e deficit strutturali: quali i rischi per l’Angola?

Pechino e le sue multinazionali non dispongono quindi di un’esclusiva per lo sfruttamento dei giacimenti angolani ma, come detto, la pervasività delle offerte che le multinazionali ed i fondi di investimento hanno portato in Angola ha inciso fortemente sulla crescita del sistema economico: dalla fine della guerra civile nel 2002, attraverso canali pubblici e privati, sono ben 14,2 i miliardi di dollari fluiti verso il Paese governato dal MPLA (Movimento per la liberazione dell’Angola) guidato da Eduardo Dos Santos, in cui attualmente operano 50 imprese a controllo statale ed altre 400 aziende private che portano a circa 70000 il numero dei lavoratori cinesi impiegati in Angola.

L’avvio dei progetti più disparati (costruzione di 20000 case popolari grazie agli investimenti del China International Fund, nuove reti ferroviarie per 350 milioni di dollari da parte di China Railways, 1,2 miliardi della China Development Bank per il settore agricolo) non hanno comunque contribuito ad aumentare la diversificazione di un’economia il cui prodotto è determinato per il 43% dai proventi del settore petrolifero. La caduta dei prezzi del greggio patita nel 2009 (-34,2% rispetto all’anno precedente) ha frenato infatti la crescita del PIL angolano da un +13,8% del 2008 al +2,4% dimostrando, sebbene le previsioni indichino un tasso di incremento del prodotto pari al 6,1% nel 2011, l’eccessiva vulnerabilità di fronte alla fluttuazioni mondiali: l’assenza di un solido settore manifatturiero e di un settore agricolo (che pure contribuisce per il 10% al PIL) che sia in grado di sostenere la domanda interna di prodotti agricoli aggiungono poi ulteriore instabilità ad un Paese fortemente indebolito dagli alti prezzi dei beni primari, con un’inflazione che per il 2012 è previsto attorno al 14,2% ed un tasso di disoccupazione che gravita attorno al 25%. In tal senso, inoltre, assume alcuni valori in parte negativi anche la crescente importanza della Cina come mercato d’esportazione (43,3% dell’export totale, 40% del petrolio esportato) e come fonte d’importazioni (14,3% dell’import per un valore di 1,5 miliardi di dollari tra beni capitali e di consumo).

Per quanto nel 2006 il Presidente Dos Santos non avesse esitato nel cogliere l’ineluttabilità dellapartnership fra i due Paesi (“China needs natural resources and Angola needs development”), apprezzando la non interferenza dei capitali cinesi nella sovranità del Paese, dal 2009 i vertici governativi hanno aperto canali di trattativa anche con il Fondo Monetario Internazionale presentando richiesta per la stesura di uno “stand-by-arrangement” (programma di finanziamento legato al rispetto di determinate condizioni di stabilità economica e politica) cui hanno fatto seguito, tra settembre 2010 e gennaio 2011, l’erogazione di due tranches di finanziamenti rispettivamente per 178,2 e 353 milioni di dollari. Segno che lo sviluppo dell’Angola non può limitarsi ad attrarre capitali cedendo in cambio le proprie risorse naturali e che i fenomeni di corruzione e di scarsa trasparenza – come quelli denunciati dall’Economist in una recente inchiesta dal titolo “The Queensway Sindicate and the Africa trade” – necessitano di interventi strutturali mirati a ridurre i segnali di cattivagovernance sinora evidenziati in un Paese in cui ancora solo il 40% della popolazione può accedere ad acqua potabile ed alla rete elettrica.

* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)

Fonti:

- “Angola and China: A Pragmatic Partnership”, IndiraCampos Alex Vines, Center for Strategic and International Studies – CSIS

- “Angola, Assessing risk for stability”, Alex VinesMarkus Weiner; CSIS

- “African Economic Outlook” – Angola 2011

- “The China-Angola Partnership: A Case Study of China’sOil Relations in Africa”, Shelly Zhao, China Briefing

- Dati macro-economici EconomistIntelligence Unit 

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