di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista
I secoli in cui il cristianesimo si afferma nell’area del decadente impero romano sono segnati dalle continue e devastanti invasioni degli Unni, dei musulmani, degli ungari e dei popoli germanici in particolare (Goti, Visigoti, Longobardi, Sassoni, Vichinghi…). Sono, questi ultimi, popoli che vivono di guerra, le cui divinità sono guerresche, i cui valori sono valori guerreschi. Popoli che non è eccessivo definire selvaggi, violenti, brutali. “La civiltà sorta dalle grandi migrazioni”, ha scritto G. Duby, “era una civiltà di guerra e di aggressione”.
In questa situazione sempre in fermento, in cui le guerre si alternano alle carestie, ai saccheggi, alla paura e alla violenza, lungo tutto l’Alto Medioevo (476-1000), uomini di Chiesa si trovano spesso a scongiurare conflitti inutili e terribili, cercando di promuovere una visione pacifica del rapporto tra i popoli.
“Uno degli effetti più vistosi delle migrazioni germaniche e della conseguente disintegrazione delle strutture dell’Impero nelle province occidentali”, scrive il Moisset, “è la crescita dell’importanza del vescovo, che diventa figura di primo piano sulla scena politica. Spesso discendente da nobile famiglia, egli possiede uno status sociale che gli permette di dirigere la resistenza o di intavolare negoziati con gli invasori; il vescovo è il defensor civitatis, l’ultimo baluardo a difesa delle popolazioni e del diritto. Nel 451 Aniano difende Orléans (Aurelianum) contro gli unni; vent’anni dopo, Paziente di Lione distribuisce a sue spese viveri alla popolazione affamata dopo le distruzioni apportate dai Visigoti” (J.P. Moisset, Storia del cattolicesimo, Lindau 2008, p. 107).
Analogamente papa Leone I (440-461), appartenente ad una famiglia aristocratica di origini etrusche, viene mandato nel 452 dall’imperatore Valentiniano incontro ad Attila, il re degli Unni che ha già devastato le regioni a Nord Est della penisola: “L’incontro avvenne a Mantova e, per motivi non del tutto chiari, Attila rinunciò a proseguire la sua marcia verso Roma”. Tre anni dopo, “nel 455, avvenne il secondo saccheggio di Roma per opera dei Vandali giunti per mare dall’Africa”, dove avevano devastato il paese e perseguitato i cattolici. “Nessun funzionario civile o militare affrontò i Vandali: solo il papa Leone andò loro incontro alle porte di Roma, ottenendo almeno che fosse salva la vita dei romani” (A. Torresani, Storia della Chiesa. Dalla comunità di Gerusalemme al giubileo 2000, Ares 1999, p. 151).
Una simile funzione di supplenza rispetto alla mancanza o alla debolezza del potere laico, inevitabilmente rafforzò la devozione dei romani verso il papato. Anche all’epoca dell’invasione longobarda, che ebbe conseguenze piuttosto pesanti per il paese, fu papa Benedetto I (575-579) a far “giungere a Roma alcune navi cariche di grano, unico soccorso contro la carestia. Il successore, Pelagio II (579-590), fu oppresso dagli stessi problemi, tanto da dover supplicare un vescovo della Gallia di inviargli grano” (A. Torresani, Storia della Chiesa. Dalla comunità di Gerusalemme al giubileo 2000, Ares 1999, p. , op. cit., p.158). Nonostante alcuni periodi bui, dovuti anche alle ingerenze politiche, la Chiesa prosegue sempre, con alterne fortune e impegno, senza mai concepire l’utopia di un mondo senza peccato e conflitti, la battaglia per una società più pacifica: sia attraverso la promozione del diritto romano, molto più civile e meno crudele di quello germanico, che contemplava la faida, cioè la girandola infinita delle vendette tra clan familiari, sia attraverso la cristianizzazione dello stesso diritto romano.
Ricorda Giacomo Balmes: “Le inimicizie particolari avevano in quei tempi un carattere violento: il diritto era costituito dai fatti, e il mondo rischiava di diventare il patrimonio del più forte. Il potere pubblico non esisteva, o era come stordito nel turbinio delle violenze e dei disastri che non riusciva ad impedire o a reprimere a causa della sua debolezza. Esso era impotente a incanalare i costumi su una direzione pacifica e far sì che gli uomini si sottomettessero alla ragione e alla giustizia. Così vediamo che la Chiesa…adottava in quell’epoca certe misure concrete per opporsi al torrente devastatore della violenza che tutto tormentava e distruggeva. Il Concilio di Arles, celebrato circa nella metà del secolo quinto e precisamente tra il 443 e il 452, dispone nel canone 50 che non si debba permettere l’accesso alla chiesa a coloro che mantengono pubbliche inimicizie, fin tanto che non si siano riconciliati con i loro nemici. Il Concilio d’Angers celebrato nell’anno 453, proibisce nel canone 3 le violenze e le mutilazioni. Il Concilio di Agde in Linguadoca tenuto nel 506, ordina nel canone 31 che i nemici che non vogliono riconciliarsi, siano immediatamente ammoniti dai sacerdoti, e se non vogliono seguirne le ammonizioni, siano scomunicati. In quell’epoca i Galli avevano per costume di andare sempre armati, e con le armi entravano in chiesa. Si capì come un tale costume era destinato a produrre gravi inconvenienti e trasformare la casa di preghiera in un’arena di vendetta e di sangue. E allora verso la metà del settimo secolo vediamo che il Concilio di Chalons-sur-Saòne nel canone 17 stabilisce la scomunica per tutti coloro che procurano tumulti o sfoderano la spada per ferire qualcuno nelle chiese o nei loro recinti. Questo ci mostra la prudenza e l’intuizione con cui era stato dettato il canone 29 del terzo Concilio d’Orleans celebrato nel 538, dove si dispone che nessuno assista armato alla Messa e ai Vespri. È curioso osservare l’uniformità dei mezzi e l’identità di vedute con cui procedeva la Chiesa. In paesi molto distanti, tra i quali la possibilità di comunicare non poteva esser tanto frequente, troviamo disposizioni analoghe a quelle che abbiamo indicato. Il Concilio di Lerida del 546 dispone nel canone 7 che chi giura di non riconciliarsi col suo nemico sia privato della Comunione del Corpo e Sangue di Gesù Cristo finché non abbia fatto penitenza del giuramento, e si sia riconciliato. Passavano i secoli, continuavano le violenze, e il precetto di carità fraterna, che ci obbliga ad amare i nostri stessi nemici, incontrava ancora un’aperta resistenza dovuta al carattere violento e alle passioni feroci dei discendenti dei barbari; ma la Chiesa non si stancava d’insistere nella predicazione del comando divino, ribadendolo in ogni circostanza e provvedendo a renderlo efficace per mezzo di castighi spirituali. Erano trascorsi più di quattrocento anni dalla celebrazione del Concilio di Arles nel quale fu proibito di entrare in chiesa a coloro che avevano pubbliche inimicizie, e troviamo che il Concilio di Worms celebrato nell’anno 868 prescrive ancora, nel canone 4, che siano scomunicati coloro che non vogliono riconciliarsi con i nemici” (G. Balmes, Il protestantismo comparato al cattolicismo nelle sue relazioni colla civiltà europea, cap. XXXIII).
Ma è soprattutto nel basso medioevo, che le cose cambiano più velocemente ed efficacemente. Intorno al Mille, infatti, nel sud della Francia, nasce un movimento per la pace “inaugurato da varie autorità ecclesiastiche allo scopo di porre un freno alle croniche violenze che caratterizzavano la società feudale e che il potere reale o comitale non riesce a tenere sotto controllo. La Chiesa è a maggior ragione preoccupata dal momento che tra le vittime di queste violenze si annoverano non pochi religiosi. Per designare la duplice reazione pacificatrice si parla di ‘pace di Dio’ e di ‘tregua di Dio’. La prima sottrae alcune persone e alcuni luoghi alla violenza guerresca; la seconda proibisce di combattere in determinati periodi (secondo il Concilio di Arles, 1037-1041, la proibizione di combattere va dalla sera del mercoledì alla mattina del lunedì). Il movimento della pace di Dio ha inizio nel 987 su iniziativa del vescovo di Le Puy, che raduna i suoi cavalieri e impone loro un giuramento di pace. Due anni dopo, nel 989, esso è già notevolmente cresciuto: in occasione del Concilio di Chartroux non un vescovo isolato, ma tutti i vescovi della provincia ecclesiastica di Bordeaux e il vescovo di Limoges pronunciano l’anatema contro chiunque abbia rubato i beni a un contadino o usato violenza a un religioso disarmato. Negli anni seguenti altre assemblee si riuniscono in Aquitania e in Borgogna per ottenere dagli aristocratici e dai cavalieri la promessa di rispettare la pace voluta da Dio. Nel 1016, i vescovi riuniti in concilio a Verdun-sur-le-Doubs fanno giurare ai cavalieri borgognoni, sulle reliquie dei santi, di rispettare le popolazioni disarmate, i luoghi di culto e i terreni contigui come luoghi d’asilo…” (R. Pernoud, Luce nel Medioevo, Roma, 1978, pp.102-103).
Accanto alla pace di Dio (pactum pacis, restauratio pacis…), viene istituita la tregua di Dio (tregua Dei), che “obbliga a sospendere l’uso delle armi in occasione di numerose ricorrenze del calendario liturgico, nonché durante certi giorni della settimana…In memoria del ciclo della Passione e della Risurrezione del Cristo non è permesso battersi dal giovedì alla domenica, ovvero dalla sera del mercoledì al mattino del lunedì. Inoltre, è proibito il ricorso alle armi durante i periodi dell’Avvento e della Quaresima, di Pasqua, dell’Ascensione, della Pentecoste e nei giorni consacrati alla Vergine e a certi santi” (J.P. Moisset, Storia del cattolicesimo, Lindau 2008, p.182). Ovviamente tutte queste regole non vengono sempre rispettate, ma certamente servono ad educare ad un’idea di pace e di rispetto, a limitare il più possibile la violenza dell’età feudale e soprattutto a trasformare la figura del cavaliere, sino ad ora un brigante senza scrupoli, nel cavaliere onorato e difensore dei deboli, almeno nella teoria, ma sovente anche nella pratica, seguente all’anno Mille . Soprattutto, la pace di Dio contribuisce “in modo eccezionale ad affermare l’idea di una immunità naturale di cui godono i non combattenti e i loro beni. Conseguenza diretta della Pace di Dio è l’enumerazione di coloro che, in tempo di guerra, godono di un ‘salvacondotto generale’: gli ecclesiastici, dai prelati sino ai pellegrini, passando per i cappellani, i conversi e gli eremiti, ‘i bifolchi e tutti i lavoratori dei campi’, i mercanti, i vecchi, i bambini e le donne” (P. Contamine, La guerra nel medioevo, Il Mulino 1986, p.360).
L’effetto generale fu che il Medioevo non conobbe né le guerre servili, né “le guerre egemoniche, aventi come fine la dominazione di un popolo o di una dinastia su un immenso territorio”; non ebbe il sistema di coscrizione di massa proprio dell’età imperiale romana e poi degli stati contemporanei, ma “una minoranza di professionisti della guerra”; inoltre la “massa della popolazione”, definita inermis, fu molto raramente coinvolta nella partecipazione alle ostilità. Ciò significa che in non poche regioni “i secoli centrali del Medioevo beneficiarono così, se non proprio di una totale scomparsa, almeno di una durevole marginalizzazione della guerra; e quand’anche essa aveva luogo, i suoi effetti erano più ‘canalizzati’ (P. Contamine, La guerra nel medioevo, Il Mulino 1986, p. 411-416 e 13). Anche così si spiega come mai dopo l’anno Mille, soprattutto in Italia, patria del cattolicesimo, e poi in Europa, abbiano potuto nascere, le stupende opere del Medioevo cristiano: le cattedrali, le università, le confraternite, gli ospedali…ciò che di buono e di bello quell’epoca difficile, ma ricca di luci, ha lasciato sino a noi
Da: F. Agnoli, Indagine sul cristianesimo, Piemme 2010