Nel suo ultimo libro, da pochi giorni nelle librerie francese, il noto medievista Jacques Dalarun ha approfondito lo studio della vita monastica durante il Medioevo arrivando ad una conclusione molto interessante: «le comunità monastiche assunsero la forma di laboratori. A partire dall’assenza di un’eredità personale e dunque di una dominazione genetica, come definire chi è superiore? In molti casi cominciò così ciò che appare come un’invenzione progressiva di forme democratiche». Dalarun, storico e docente universitario francese, già direttore dell’Istituto di ricerca per i testi e la storia (CNRS), Direttore di Studi Medievali presso la École française di Roma, di cui è attuale Presidente del Consiglio Scientifico.
Intervistato su Avvenire, ha spiegato che anche una comunità piccola e unica come quella monastica «può divenire un motore della storia [...]. Qui in un modo o nell’altro chi è superiore si definisce pure come inferiore. Oppure, è superiore perché è inferiore. Per san Benedetto, l’abate non deve presiedere o dominare, ma restare al servizio degli altri membri della comunità». Il Medioevo fu un abbozzo di democrazia anche a livello civile, come le assemblee locali in Scandinavia o l’esperienza dei Comuni italiani, ma è sopratutto all’interno dei monasteri cattolici che non ci si rifaceva «al modello della democrazia ateniese, divenuto all’epoca molto astratto e ideale. Seguendo i primi passi di questa comunità, si scorge tutta la dimensione umana e in fondo la verità di una piccola società che inventa le proprie regole e le comprende, ad esempio che il tipo di elezione non riassume interamente una democrazia. In questo senso ci si avvicina non solo a ciò che la democrazia è poi divenuta, ma anche a ciò che ancor oggi dovrebbe essere: l’arte di governare senza che nessuno possa aggrapparsi al potere». Nel tempo, poi, avvenne uno slittamento di tutto questo dall’universo religioso a quello civile, basti pensare che in Italia «l’assemblea comunale si teneva talvolta nel convento francescano», ha infine spiegato.
La tesi di Dalarun non è certo nuova, ne ha parlato anche l’editorialista de Il Corriere della Sera, Piero Ostellino, concludendo la sua “Difesa laica del Papa” del 2010: «Come se la stessa nostra democrazia liberale non fosse debitrice del messaggio cristiano che ha posto al centro la sacralità e l’inviolabilità della persona». Anche il sociologo Rodney Stark, docente presso la Baylor University (Texas), nel suo “La Vittoria della Ragione“ (Lindau 2006), ha spiegato che la vera lotta alla discriminazione è stata fatta con l’introduzione dell’assunto dell’uguaglianza morale (unicità degli uomini davanti alla legge). Ma tale novità non è nata nell’Illuminismo e nemmeno grazie al mondo classico, laddove «se è vero che erano esistiti esempi di democrazia, questi non erano radicati in alcuna affermazione di parità che andasse oltre all’uguaglianza dell’élite». Non a caso le varie città-stato della Grecia e di Roma si fondavano su un numero smisurato di schiavi.
Invece «fu proprio il cristianesimo», ha continuato Stark, «a eliminare l’istituzione della schiavitù ereditata dalla Grecia e dalla Roma antiche. Allo stesso modo, la democrazia occidentale deve le sue origini intellettuali e la sua legittimità essenzialmente a ideali cristiani, e non a una eredità greco-romana. Tutto ebbe inizio con il Nuovo Testamento». Gesù Cristo, infatti, proclamò il concetto di uguaglianza morale sopratutto con i fatti, «ignorò ripetutamente le principali differenze tra le classi sociali e frequentò persone stigmatizzate, come samaritani, pubblicani, donne immorali, mendicanti e vari altri emarginati, dando così un sigillo divino all’uguaglianza spirituale». Su questo esempio che San Paolo ammonì: «non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
Il modello venne così stabilito, ha quindi concluso il prestigioso sociologo delle religioni, e poi si abbracciò «un concetto universalistico d’umanità elaborato dal teologo cristiano del III secolo, Lucio Celio Firmiano Lattanzio, nella sua famosa opera “Divinae Institutiones”», dove ad esempio si afferma: “il secondo elemento della giustizia è l’equità. L’equità, dico, [...] nel considerarsi uguali a tutti gli altri [...]. Dio, infatti, che crea gli uomini e infonde in essi l’anima, volle che tutti fossero uguali [...]. Ci chiamiamo vicendevolmente fratelli, perché riteniamo di essere uguali [...], tra di noi non esistono servi; ma i servi noi li consideriamo e li denominiamo fratelli rispetto allo spirito, compagni di servizio rispetto alla religione” perché ”la giustizia significa rendersi uguali anche agli inferiori”.