“Ragazzo, allora…diventano otto, di cui uno in vetro, due alla macchia, di cui uno basso, e due estivi di cui uno agh”.
Frase colta al bar all’ora di punta.
Il linguaggio fra il barista e il ragazzo alla macchina del caffè è cifrato, misterioso, incomprensibile.
Lo capiscono solo loro.
Si sa solo che ogni tanto ci piazzano dentro quel “di cui uno” che nobilizza la situazione sul piano dei pronomi relativi anche se sei alla Bolognina.
Ma ce ne sarà mai uno normale, porco cane? un caffè senza di cui?
Se uno ordina un caffè normale oggi viene guardato come si guarda una cacchetta di mucca.
Una volta si entrava al bar e dirigendosi verso il frigo dei gelati sul quale ti aspettava lo Stadio si diceva, come parola d’ordine: “Fancafà?”, bonfochiato pure.
E poi leccatina al dito e via con lo sfoglio (tra l’altro quella leccatina lì chissà che tremendi contagi ha portato in giro nei secoli).
Adesso il caffè è diventato più complicato di un’equazione algebrica.
Tale da essere definito “caffè pugnetta”.
Qualche barista è caduto svenuto dietro ad ordinazioni del tipo: “Mi fa un caffè, basso, con latte a parte, in vetro, con schiumina del cappuccio, mezzo estivo, mezzo marocchino, un po’ invernale e un po’ quattrostagioni, me lo macchia con della sambuca e poi a parte mi dà anche un po’ di latte caldo e nella tazzina metta anche due decorazioni del tardo barocco e, siccome è quasi natale, anche due filini di stelle filanti fatte con lo zucchero…”
Ma pare che dopo lo svenimento il cliente non avesse ancora finito e abbia continuato per altri due minuti e mezzo.
La gente ha voglia di cose nuove insomma.
E se si appura che un animalino della Tanzania da degli escrementi da cui si può estrarre un caffè particolare subito ci si salta dentro a piedi pari.
“Vorrei un caffè, quello cacca di Tanzania”.
Si va a mode, ma siccome a Bologna da sempre si guarda “fuori” come se fosse tutto più bello e più buono, ecco il caffè marocchino, il caffè pugliese, il siciliano, il marziano, il congolese, il mongolo, il visigoto, il barbaro, il nibelungo eccetera.
Basta inventarsene uno e diventa subito di moda.
Io spesso per scherzo quando entro al bar dove vado di solito dico, senza enfasi, tutta tranquill: “Solito caffè con i ciccioli, grazie”.
Subito chi mi sta a fianco fa la faccina interessata.
“Cos’è? lo voglio anch’io; così per provare”.
E lì mi piacerebbe tocciargli veramente i ciccioli nel caffè per fargli sentire la novità e il curioso impasto dei sapori.
Va molto di moda la tazza grande e la tazza piccola.
E’ talmente diffusa che verrà estesa anche all’acquisto del vasino per il bimbo; “suo figlio la fa in tazza grande o in tazza piccola?”, o nelle scadenze Irpef: “vuol pagare in tazza grande o in tazza piccola?”.
Imperversa l’orzo che uno di solito ordina per non prendere troppi caffè.
“Noooo, a me d’orzo, grazie” e nessuno ammetterà mai che fino a qualche anno fa veniva considerato una brodazza infame.
“Ma no, dai, che in fondo è buono!”.
“Da frèzzar”, commenterebbero gi anziani di piazza che il caffè l’han sempre preso normale e che quando sentono al bar “uno nuvola, uno in vetro, uno macchia, uno caramellato, uno cremino, uno al banco, uno sotto la panca, uno sopra la panca, uno che canta, uno mocaccino, uno smoccolato, uno col latte di mandorla, o di capra, o di Osvaldo (è il lattaio) o di soia, o di soccmel”, scuotono la testa, non è per l’alzhaimer, e dicono: “mo un cafà nurmèl, as pol avair?”.
Spesso la risposta è no; non c’è più normale.
Ti sventolano sotto il naso la lista; sì, esiste un menù dei caffè.
E i vecchi pensionati di piazza allora, dall’alto della loro esperienza, prontamente pongono il quesito se per caso i nuovi depositari della scienza del caffè sanno dove se lo devono mettere quel menù lì.
Quesito che rimane però quasi sempre gentilmente insoluto.