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La narrativa è comunicazione

Da Marcofre

Ma allora un racconto, un romanzo, quale scopo deve avere? Ne deve avere uno, oppure è inutile? È così grave che una storia sia solo bella da leggere, e basta?

Si potrebbe con agilità ed eleganza sgusciar via da queste domande affermando per esempio che se una storia fosse già bella, sarebbe grasso che cola, come si dice dalle mie parti.

Però è giusto anche ricordare che la qualità della scrittura, la cura nella scelta delle parole deve essere massima. C’è un aspetto da tenere in conto: una storia, non deve solo badare a svelare il mistero dell’uomo, a celebrare le erbacce, come mi piace ripetere spesso da queste parti.

L’aspetto estetico, la cura, non è secondaria: mai. Chi legge deve aver chiaro cosa succede, lo sviluppo non solo deve essere coerente (oppure: può anche non esserlo. Però deve essere convincente, in qualche modo…), ma chiaro. Se devo rileggere, o mi trovo su un testo di filosofia particolarmente coriaceo (e scritto male, perché no? Chi ha detto che un libro di testo per essere buono debba essere pesante?).

Oppure è stato scritto da una capra.

Lo sanno anche i feltrini delle sedie: se ho un messaggio ma non so comunicarlo, non è un problema del lettore, non si tratta della sua ignoranza. È un problema mio.

La narrativa è comunicazione. È un punto che viene spesso tralasciato, ignorato, snobbato: se scrivo, sono gli altri che devono sforzarsi. Io già faccio così tanto per essi, devo pure perdere tempo a comunicare?

Se comunicare, quindi scrivere in modo efficace, qualcuno lo considera una perdita di tempo, non sarò io a contraddirlo. Ci mancherebbe altro. Però non si stupisca troppo se nessuno… perderà il proprio tempo a leggere le sue storie.

Ribadisco: è inevitabile che il lettore non superficiale si chieda alla fine, o anche durante la lettura: “E questo dove vuole andare a parare? Che significa tutto questo?”. Benché io abbia qualche dubbio al riguardo: con una letteratura ridotta al rango di intrattenimento, e un pubblico abituato a galleggiare, a non immaginare neppure che possa esserci qualcosa di profondo e misterioso, è un miracolo quando e se qualcuno invece coglie il senso.

Perciò se le parole sono mediocri, i luoghi comuni sono presenti a ogni piè sospinto, si contravviene a uno dei doveri di chi scribacchia. Vale a dire: puntare all’arte. Che vuol dire essere efficaci e di valore, e sembra una bazzecola: però a guardar bene cosa c’è in giro, ci si rende conto che tanto semplice non è. Altrimenti tanta letteratura mediocre non ci sarebbe.

Una storia scritta bene ha un suo “motore”: ogni parte deve essere oliata, registrata a dovere, ogni bullone o vite deve essere stretto perché non si perda qualcosa mentre si procede nel viaggio. No, niente perfezione: si tratta pur sempre di un “modello” con i suoi limiti. E per giungere appunto nel profondo è indispensabile che la forma non contenga debolezze, o che queste siano minime.

Né che mostri sciatteria perché di certo una persona sciatta andrà in brodo di giuggiole trovando un ambiente che conosce bene. Se però lo scopo è andare oltre le apparenze, allora è un problema grave perché mai sarà offerta al lettore la possibilità di conoscere il mistero dell’uomo. Galleggerà, e sarà un’occasione persa.

Ancora una volta, spero di aver dimostrato che scrivere è senz’altro semplice, facile e alla portata di tutti e guai a non provarci. Scrivere storie però è un altro paio di maniche. Mi spiace.


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