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La pirateria somala

Creato il 13 ottobre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Dentice 

Questo articolo è stato selezionato come articolo di apertura di Paperblog , il 13.10.11

Il commercio marittimo ha rappresentato nei secoli una delle forme più utilizzate ed economicamente efficienti per garantire l’interscambio di merci e servizi tra Stati. Oggi questo sistema non sembrerebbe essere più adeguatamente sicuro e protetto a causa del riaffiorare del fenomeno piratesco al largo delle coste somale, facendolo divenire, negli ultimi vent’anni, una minaccia costante alla navigazione mercantile di mezzo mondo. Fin dall’inizio della guerra civile somala, durante i primi anni ’90, la pirateria – che richiama alla mente immagini e stereotipi della letteratura di salgariana memoria – ha rappresentato un pericolo costante al commercio regionale e internazionale. Infatti, la minaccia piratesca non è relegata solo a Yemen e Somalia ma, in realtà, infesta le acque che vanno dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano, concentrandosi in particolare tra lo Stretto di Bab el-Mandeb (che congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e lo stesso Oceano Indiano) e lo Stretto di Hormuz (che collega il Golfo Persico/Arabico con il Golfo dell’Oman). Alcune propaggini del fenomeno giungono a lambire, addirittura, le coste cinesi meridionali.

La pirateria somala

Rotte della pirateria. Fonte: Limes

Dal 2005 molte organizzazioni internazionali, tra cui la World Trade Organization (WTO), l’International Marine Bureau (IMB) e il Piracy Reporting Centre (PRC), hanno espresso la loro preoccupazione per i rischi economici e sociali causati dalla pirateria. L’IMB, ad esempio, ha registrato nel primo trimestre 2011 un incremento delle attività dei pirati somali di oltre un terzo rispetto al 2010 con 142 attacchi in tutto il mondo e 18 navi sequestrate, di cui 15 catturate al largo della costa orientale della Somalia. Questi attacchi pirateschi hanno prodotto perdite complessive all’economia globale per circa 7-12 miliardi di dollari. Solo nel 2010 circa 238 milioni di dollari sono stati pagati ai pirati del Golfo di Aden e dello Stretto di Hormuz per il riscatto degli equipaggi e delle imbarcazioni sequestrate. Insomma, per utilizzare la definizione della International Chamber of Commerce (ICC), il fenomeno della pirateria è diventata “una crescente minaccia alla stabilità delle linee di rifornimento energetico destinate alle principali nazioni industrializzate e non solo ad esse”. La pirateria è diventato un fattore geostrategico e geoeconomico in grado di influenzare non solo i commerci internazionali, ma anche le relazioni politico-diplomatiche qualora non si riuscisse a trovare una soluzione per debellare un fenomeno ormai globale dai connotati criminali. 

Un quadro della pirateria somala

La pirateria somala ha radici antichissime. Bande organizzate hanno sempre agito lungo le coste somale e yemenite, che agli inizidel XX secolo vennero in gran parte annientate dalla marina inglese e, parzialmente, da quella italiana e francese. Il colonialismo nella Somalia italiana, nel Somaliland inglese e nella Somalia francese (oggi Gibuti) hanno permesso agli Stati in questione di sconfiggere, in modo pressoché totale, il fenomeno della pirateria. Se ne tornò a parlare nei primi anni Novanta, quando, in seguito alla mancanza di un potere centrale causata dalla caduta del Presidente-dittatore Siad Barre, alla dissoluzione dello Stato somalo e all’instaurazione di una guerra civile che caratterizza ancora il Paese, la Somalia piombò in uno stato di generale caos che ha permesso nuovamente la proliferazione del fenomeno piratesco. Questo è stato anche favorito dalla frammentazione del territorio in potentati gestiti dai clan (le Corti Islamiche) e dal complessivo fallimento della struttura istituzionale (la Somalia da alcuni anni è stata dichiarata Failed State).

La pirateria moderna, inizialmente, era dedita essenzialmente alle rapine e solo in rarissime occasioni venivano sequestrate le imbarcazioni attaccate. Una prima trasformazione avvenne invece tra il 2001 e il 2002, quando un gran numero di ex combattenti delle formazioni qaediste e talebane raggiunsero la Somalia. Al-Qaeda ha nel tempo sviluppato numerosi legami con alcune formazioni di pirati che successivamente si allearono con le Corti Islamiche. Le formazioni dei pirati sono così riuscite ad aumentare il loro potenziale economico; così anche gli equipaggiamenti di cui si sono riusciti a dotare hanno permesso loro di dare maggiore autonomia nella navigazione, nelle modalità di assalto e nella gestione dei prigionieri. Questa alleanza ha permesso, quindi, un considerevole incremento qualitativo del fenomeno piratesco. Ma il salto di qualità definitivo avvenne nel dicembre del 2006, quando iniziò a sgretolarsi l’alleanza tra le Corti Islamiche e al-Shabaab, la componente somala delnetwork qaedista, e fecero ingresso nello scenario altre organizzazioni criminali globali che hanno permesso un miglioramento delle capacità operative e logistiche delle bande. Oggi le squadre dei pirati sono talmente tanto organizzate da poter contare su informazioni precise ottenute attraverso la rete della criminalità internazionale. 

Operazioni anti-pirateria e possibili soluzioni diplomatiche

In risposta all’aumento della pirateria, l’Unione Europea ha lanciato l’“Operazione Atalanta” dell’EUNAVFOR; gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno creato la “Combined Task Force 151”; la NATO ha diretto la “Ocean Shield Operation”; mentre Cina, Giappone, Russia, Malesia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar hanno inviato delle navi a pattugliare l’Oceano intorno alla Somalia. Le varie azioni anti-pirateria hanno prodotto risultati modesti a causa non solo delle inadeguate risorse in campo (scarsità di mezzi navali e inadeguatezza degli equipaggi in queste azioni), ma anche dell’incapacità di coordinamento delle flotte e delle carenze operative delle attività di intelligence. Tuttavia, molti Stati hanno deciso autonomamente di intervenire singolarmente per assicurare i traffici marittimi attraverso adeguate scorte militari (in particolare di contractors – mercenari) per la protezione degli equipaggi, del carico e della stessa imbarcazione.

La necessità di un maggiore coordinamento internazionale e di una migliore efficacia delle iniziative finora intraprese nella lotta contro la pirateria somala sono stati i temi dibattuti durante l’ultimo World Maritime Day (WMD), un forum internazionale organizzato dall’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nello sviluppo e nella sicurezza della navigazione internazionale. L’evento tenutosi lo scorso settembre a Roma ha, inoltre, affrontato la necessità di orchestrare un’azione inter-force per rendere sicuri i mari e i traffici marittimi internazionali. La pirateria tra il Golfo di Aden e lo Stretto di Hormuz ha, infatti, ripercussioni su scala globale e richiede una stretta cooperazione tra i principali soggetti internazionali: i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno avviato un dibattito interno all’organizzazione sulla possibilità di contribuire più attivamente nella lotta alla pirateria e limitare i danni nel settore dell’esportazione del petrolio. Infatti, il 20% dei trasporti commerciali internazionali via mare avviene attraverso il Golfo Persico/Arabico e dal solo Stretto di Hormuz transita il 90% degli idrocarburi diretti ai mercati asiatici (principalmente verso Cina e India) ed europei. È sulla base di ciò che gli Stati del Golfo stanno discutendo della possibilità di allargare l’organizzazione anche allo Yemen: oltre a produrre possibili effetti positivi nel contesto nazionale yemenita (possibile stabilizzazione della crisi politica e rafforzamento dei confini sauditi), l’inclusione di Sana’a comporterebbe la possibilità di avere a disposizione una nuova base operativa nell’area di riferimento.

Un ulteriore contributo alla lotta alla pirateria potrebbe essere costituito da un potenziamento della cooperazione internazionale tra la Nato e i Paesi del Golfo: l’Istanbul Cooperation Initiative (ICI) – una partnership multilaterale creata nel 2004 e attiva sul piano della sicurezza in Medio Oriente –, potrebbe facilitare un possibile intervento dei Paesi GCC nel debellare il fenomeno piratesco somalo nel garantire la sicurezza dei mari orientali, un po’ sul modello già adottato da Singapore, Malesia e Indonesia nella lotta alla pirateria locale al largo dello Stretto di Malacca.

Un intervento congiunto, quindi, delle maggiori organizzazioni politiche regionali eviterebbe la possibile estensione del problema della pirateria anche al Mediterraneo. Qualora il fenomeno dovesse allargarsi anche al Canale di Suez – attraverso il quale passano il 90% dei commerci marittimi tra Europa, Medio ed Estremo Oriente –, potrebbero verificarsi effetti destabilizzanti non solo per l’Egitto, ma anche per i mercati europei. 

Conclusioni

Si è spesso detto che manca una base giuridica internazionale che faciliti una risposta collettiva adeguata. In realtà, il diritto internazionale concede agli Stati la possibilità di perseguire, anche attraverso l’uso delle armi, il fenomeno della pirateria, in quanto considerabile crimine contro l’umanità (le Risoluzioni 1816 del 2/6/2008 e la 1938 del 6/10/2008 autorizzano ad intervenire nel quadro somalo). D’altra parte la pirateria è il primo crimine della storia per cui sia stata prevista la giurisdizione universale; essa è stata disciplinata dalla Convenzione di Ginevra del 1958 sull’alto mare, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e dalla Convenzione di Roma del 10 marzo 1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima.

Condizione necessaria per abbattere in fenomeno, tuttavia, non è solo la concertazione internazionale, ma anche la stabilizzazione della Somalia. Visti i fallimenti del passato e l’aggravarsi della situazione sociale interna, questo sarà un obiettivo di lungo periodo e di non semplice risoluzione. Se non prontamente tamponati, i problemi del Corno d’Africa, quindi, potrebbero avere in prospettiva degli effetti ancora più pericolosi.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)

 

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