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La poesia come dialogo: Sylvia Pallaracci & Enzo Moretti

Creato il 16 settembre 2014 da Wsf

 

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sylvia

*
non chiamavi più le cose col loro nome
e io sentii la solitudine riempirmi come una casa
che va a fuoco

ingoiai tutta intera l’aria
mancata ai polmoni
il pavimento s’afflosciò contro la testa
perduta nella parte più lontana di te

un suicidio l’amore
mi riportò in vita col rumore del rossetto
rifiatato dal tuo sguardo

*
da un presentimento
inizi a sotterrarti
in questa finestra sospesa
sul vuoto
il sudore ti cola verde
d’erba smantellata a suon di fuochi
inesorabile ti pietrifichi
come i rovi perfettamente nudi
nel loro palmo d’ombra
nulla di te rimane più
evidente dei falli delle statue e delle tombe innalzate
a rivendicarti l’uomo
e prima che la terra screpi e un qualchiddio rimbecchi
la tua miseria
mi allunghi le braccia
che sono nata per vivere
solo di questo
assalto di disperazione che ti ricurva
le unghie dentro cui urlo come una folla
di morti mentre bruci
la tua Chiesa

*
nessuno ci disse che saremmo morti
tra queste fioriture
epiteliali e coi piedi spaiati nelle due stagioni
che ci sudano dentro
l’astinenza del fuoco dal fuoco

io che precipito,tu che non credi
possa accadere
questa mia compattezza indecente sul tuo suolo
in ogni punto estesa come il transito di tutta la materia
inaudita sul limite
fra me e te

*
non muoverti
che non c’è modo d’interrompere l’odore
di pietra che scopre la carne
né il levarsi dell’ombra traditrice a definirti
oltre l’idea di perfezione

fascino dell’immobilità
nell’atto irriducibile della materia
sento che vieni
da un’altra vita

*
nella stanza c’è solo il vento
tremolato dalle dita
lamenti e lenimenti
nei lineamenti del sonno
fratturato da sussulti tra_lucenti

il mattino è sempre una notte
spogliata d’inchiostro
il sole nudo che non ci sveglia
alcuna vergogna

*
era freddo
imprevedibile quel giorno che ci evitò
i confessionali e queste crisi di nervi irreparabili
come l’ultimo atto di una tragedia

ora il vento raggiunge la tracciabilità
del sudore in un canneto che sgretola
la gola nel rigurgito erotico
di un nome
scomodo come una sedia
abbandonata all’indietro

Sylvia Pallaracci

enzo

*
cena da me
senza macchiarmi – nuda
prima che questa bufera scoperchi il cranio
e il macigno chiuda lo stomaco della bocca
intollerante al pensiero
della parola cruda

( piova non piova
ci spioveremo dentro )

*
assesti il baricentro
la fioritura a ogni stagione
della mia terra
sradicata di luce eclissando
la blasfemia del sole a boccate
umidissime che sfiammano
le discese di questa gola
in cui mi affiori il biancore
notturno del papavero quando spollina
il richiamo della luna

*
tragica
mi insegui fuoricampo
fino all’ultimo spazio violabile
con la malaria nei polsi e il delta
che sversa il getto
solfureo in cui slabbri
rosa a ridosso del mio spettro
(e)rettile avvelenato di fuoco
per stordirti il midollo

*
Diranno: «E’ ambiguo!
Ha poco senso del privato.»
Non ho mai messo il cartello “attenti al cane”.
Non sanno che le mie parole sono feritoie
sulle stanze in cui mi rivedo
come quando mi inculavo una puttana
e con un piede reggevo la porta
spinta dal frocio che voleva entrare.
Eravamo così uguali! Poca pelle
sopra le ossa e avvoltoi sull’ultimo boccone.
Ma era già troppo stretto il buco
del mondo dove mi ero cacciato
piegato a raccogliere i fiori del male
nell’incendio di un tramonto
spento come cicca in un boccale.
La senti la zanzara sulla sedia elettrica?
Poi tocca chiamare la polizia
per una sorte un po’ migliore
e fingere un sequestro, il tuo.
Eppure scappi ancora per quella toppa di libertà.
Ma questa è solo la storia
di un evaso, ambigua e poco privata,
che sa quanto sono stretti i nodi
in gola e i lacci sulle vene

*
i capelli neri
la linea socchiusa del rimmel
con un filo di labbra sul petto

il tiepido rosa poggiato di fianco
e i capezzoli dritti
a rispuntarmi dal sonno

*
pelle alle unghie
di parole impagliate
nell’ intestino
[la stazione vuota
il rancido cibo]
s’annoda il budello
in piccole morti
al gancio umido di trave
[antro sconsacrato
del marginale visibile]
ingordo
ristagno nel piatto votivo la fame
addensa i bordi delle tue magrezze di porcellana
ancora calda di mani
andate in frantumi

Enzo Moretti


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