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La rivolta delle penne – un nuovo racconto dei Ritratti di Ringhiera

Creato il 27 dicembre 2011 da Unarosaverde

Ho ricevuto questo racconto da Luigi Damiano Russo, (seguite il link: vi porterà a delle foto molto belle) che mi ha scritto di aver scoperto il mio blog per caso. I sentieri del web sono infiniti! Non sai mai dove puoi capitare. Grazie per aver  popolato il microcosmo che ruota intorno alla casa di ringhiera con un altro personaggio.

(Per inciso: io ogni tanto mi chiedo come mai la tv e la letteratura siano piene zeppe di serie su medici, avvocati, infermieri, pompieri, furfanti, poliziotti, parrucchiere ma mai, proprio mai, ingegneri. Chissà perché!!!)

La rivolta delle penne

Era il solito pomeriggio di fine mese, giorno dedicato dall’Ing. Rapolla alla chiusura dei conti. Ore 17 passate, il sole ormai all’orizzonte lasciava spazio alle uniche luci gialle che, con il calar del sole, si erano accese illuminando il parcheggio dei camion.

Nella stanza regnava un silenzio che l’Ing. non ascoltava da tempo: la strada sotto la sua finestra era chiusa per dei lavori che andavano avanti da alcuni mesi e che l’avevano assillato per tutta l’estate ma che in quel pomeriggio d’autunno, per chissà quale motivo, erano stati terminati prima del solito: gli operai avevano concluso la loro giornata lavorativa alle ore 13:00.

“Avranno avuto difficoltà con gli accostamenti di colore” pensò, ben sapendo che i lavori erano ultimati e restavano solo da posizionare i cartelli per le ormai nuove e definitive indicazioni stradali. Da molti anni, infatti, si parlava di deviare la strada principale ma solo con il nuovo sindaco i lavori erano stati iniziati e portati a termine nell’arco dell’anno.

Con i lavori fermi e la strada chiusa, i rumori esterni erano nulli, situazione dunque quantomai insolita per quell’ora ma più che adatta a favorire la concentrazione per i calcoli che ogni fine mese lo assillavano.

L’Ing. si posizionò vicino la finestra, alla sua scrivania disposta rigorosamente parallela alle imposte lasciando solo lo spazio per aprirle e assecondando un’altra sua piccola mania, quella per le linee non incidenti. In tal modo avrebbe potuto di tanto in tanto lanciare delle occhiate verso lo spiazzo antistante.

Diversi anni prima, infatti, appena trasferitosi nella nuova casa, si era rammaricato per non poter più disporre di una finestra che gli permettesse di spaziare con i pensieri verso l’orizzonte a causa di una vecchia casa di ringhiera che gli ostruiva la visuale. Era una costruzione piuttosto fatiscente, di 4 piani, 7 appartamenti per piano.

Per molti anni, dunque, era stato costretto a non poter coltivare questa sua piccola mania: quella, cioè, di svolgere la maggior parte delle sue attività sedentarie in prossimità di una finestra dalla quale potesse osservare un’ampia distesa.

I lavori per la deviazione della strada principale, però, avevano costretto il comune ad abbattere proprio quella casa e l’Ing., dopo aver assistito con soddisfazione – senza però nascondere un po’ di sana malinconia – all’abbattimento della costruzione, si era rallegrato di poter riprendere l’abitudine di apprezzare, a fine giornata, la distesa che aveva di fronte.

Quella costruzione era stata popolata da famiglie povere, gente di passaggio, amici dei proprietari. Ogni volta che, in passato, si era preparato  ad avviare i suoi calcoli non aveva potuto fare a meno di  dare un’occhiata incuriosita verso quell’angolo di mondo in continua evoluzione. Chissà, dietro questa o quella tendina, cosa si nascondeva; quale delle numerose fasi della vita di ognuno si stavano svolgendo nell’istante in cui lui vi aveva dedicato attenzione. Dopo l’abbattimento di quella costruzione aveva la visuale libera ma la fantasia vuota. Più del solito.

Quel pomeriggio, dunque, le condizioni sembravano perfette per poter lavorare fino a tarda sera su quei calcoli che da alcuni giorni già non quadravano: l’avrebbe spuntata lui, ne era convinto, ma riuscirci avrebbe richiesto la rinuncia alla cena e, forse, alla telefonata serale.

Molti documenti erano già pronti, molti altri, invece, ancora saldamente rinchiusi in appositi faldoni che nel corso degli anni aveva provveduto a disporre in maniera ordinata a fianco della scrivania, ognuno classificato per anno, contenuto e stato delle pratiche (perché altrimenti avrebbe confuso ed ingiustamente mischiato quelle in corso con quelle concluse, e ciò, ebbene gli fosse razionalmente ammissibile, gli procurava un senso di disagio che tendeva a sfuggire).

Da questi documenti iniziò ad estrarre quelli dell’anno in corso, del secondo semestre, del mese di ottobre. Alcuni riportavano dei segni tracciati con una penna, un evidenziatore verde e un sottile pennarello celeste, altri riportavano delle note sull’intestazione che gli ricordassero cosa rimanesse da analizzare su quel singolo plico “da controllare”, “riportare sul totale”, “ok”, “verificare se ancora disponibile” oppure, il più evitato, “chiedere spiegazioni”.

Voleva dire, infatti, non aver capito, voleva dire forse fare giri su giri di telefonate a sconosciuti o, peggio ancora, a persone che conosceva bene, ognuna con le sue difficoltà ad ammettere di aver sbagliato oppure mal disposta a dar spiegazioni nel caso fosse stato lui a non aver capito bene.

Per fortuna, quel mese, nonostante non fosse ancora riuscito a far quadrare i conti, di “chiedere spiegazioni” non ne aveva nemmeno una e ciò lo disponeva bene verso il lavoro che lo attendeva.

Non gli restava che prendere la penna in mano ed iniziare a spuntare le voci già analizzate per avere un quadro visivo di ciò che l’aspettava per quel pomeriggio.

L’Ing., da maniaco per le linee parallele quale era, non poteva permettersi il lusso, come tutti, di avere un bicchiere con le penne. No. Lui doveva averle disposte in ordine, come gli anelli di un gioielliere, in una custodia verde del terzo e del quarto cassetto così che, appena aperto, potesse avere la visione completa delle sue penne e scegliere quella più adatta. E così per matite, evidenziatori, gomme e tutto ciò che riguardasse la cancelleria.

Aprì il terzo cassetto. Scelse la penna più semplice, a scatto. Impugnatura in plastica rossa e scatto in metallo leggero con gancio, anch’esso in metallo, a forma di freccia. Chiuse il cassetto ed iniziò a segnare.

“Gn!”

 Riprovò a scrivere… “Gn!”.

“Ecco lo sapevo”, pensò, “il troppo caldo di questa stanza, alla fine, avrebbe fatto seccare l’inchiostro!”.

Non aveva tempo per sostituire la carica della sua penna preferita (non aveva nulla di particolare che la rendesse preferibile alle altre, era solo una penna qualunque eletta a preferita). Non la ripose nel cassetto ma nel cesto delle cose “da vedere”. Scelse un’altra penna, interamente nera, col tappo.

La rimise sul foglio per tracciare il segno di spunta e.. “Gn!”.

A questo punto decise di andare più a fondo, prese un foglio di carta spessa ed iniziò a tracciare ghirigori netti e marcati per far scorrere l’inchiostro presumibilmente seccato.

“Gnnnnnnn!”

Non c’era verso. Il foglio si lacerava e la punta della penna si riscaldava.

Rinunciò e rivolse le sue attenzioni verso la solita penna ad inchiostro gel che era nel quarto cassetto: “questa non ha mai mancato un tratto, con ogni condizione climatica!” disse, soddisfatto per averla acquistata.

“Gnflflflnngn!”

“Anche questa! E’ assurdo!”

Non trattenne l’impazienza e la lanciò verso il cesto “da vedere” senza centrarlo. Si scheggiò.

Iniziò a provare ad una ad una tutte le penne che aveva, rigorosamente allineate, nei due cassetti senza che nemmeno una funzionasse. Nessuna sbavatura di inchiostro, nemmeno una macchia o un segno che dessero traccia della presenza degli inchiostri nei refill.

Non ammetteva l’utilizzo di matite per questo tipo di lavori. Continuò a provare con alcune penne, alcune riportavano lo sponsor del negozio che le aveva regalate – il cognome sempre e rigorosamente prima del nome: Branchetti Fabrizio, forniture elettromedicali, Colasanta G., consulenza legale e c’era perfino Larenna Paola sfizi di pane.

“Questi gadget! Sempre prodotti economici! Anche il panettiere. Come se scrivendo mi potesse venir fame!”.

Le stava provando tutte. Penne ad inchiostro gel nero. Penne con l’impugnatura arrotondata e rivestita di morbida gomma colorata. Penne interamente in metallo, monoblocco, usa e getta…

“Ma cosa me ne faccio di una penna monoblocco! E se dovesse essere più comoda delle altre ed una volta finito l’inchiostro volessi riutilizzarla? Una volta… cioè ora! Ecco, ora, se pur volessi riusarla, scendere in negozio, prendere un refill NUOVO, sostituirlo… eh no, non posso! Certo, è monoblocco!”

Ed anch’essa andò ad adagiarsi vicino alle altre dirette al cesto “da vedere” ma mai giunte a destinazione. E così via, le provò tutte. Andò anche a prendere quelle nascoste fra i libri, nelle borse (ovviamente sfilandole dalle apposite asole che ordinatamente le ospitavano), nel marsupio, quelle utilizzate come portachiavi, quelle microscopiche di Fotoforniture di Roberto Gualci, via della scaletta 27 – di cui ebbe la lucidità di notare la disposizione degli appellativi – ma tutte finirono ad arricchire l’oramai degna di nota montagna di plastica che si era formata nell’angolo sinistro del balcone.

“Gn!”

Questo tipo di lavori non poteva prevedere l’uso di matite. Di nessun tipo. Aveva una sola speranza: le due penne stilografiche che erano, invece, nel primo cassetto insieme con i calamai, le cartucce e le apposite siringhe utilizzate per riempirle. Loro avrebbero funzionato. L’inchiostro gliel’avrebbe messo lui!

L’Ing. era solito considerare l’attività di ricarica delle sue due penne stilografiche come uno scacciapensieri. Non lo faceva mai quando andava di fretta, piuttosto usava la matita. Considerava ogni penna stilografica come un oggetto degno di rispetto, più della sua penna preferita. Le usava e trattava con ferma riverenza. Non le portava mai fuori da quella stanza. E le ricaricava solo con inchiostro blu cobalto perché voleva che i testi scritti con esse si distinguessero oltre che per la morbidezza del tratto anche per l’insolito colore.

Questa volta però “si trattava di un’emergenza!” non poteva dedicare molto tempo alla loro ricarica, doveva agire in fretta, senza preoccuparsi di pulire pennino e siringa. Doveva agire.

Erano oramai le 19 e non aveva ancora iniziato. Passi la cena ma alla telefonata non sarebbe stato possibile rinunciare.

L’operazione era semplice ma aveva un solo momento critico in cui tutto l’inchiostro in eccesso, se non controllato, sarebbe fuoriuscito. Doveva fare con calma. Rapida calma. L’attendevano i calcoli e la telefonata. Ricaricò la prima penna. Era quasi sicuro che dovesse funzionare ma non riusciva a provarla. La mano era tanto agitata che temeva di forzarne il tratto. Pensò di ricaricare anche la seconda, sperando nel frattempo di acquistare fiducia e calma.

“Ecco – disse – sono entrambe cariche! Maledetto me che non ho voluto affidarmi a loro già da prima.”

Una matita, si sa, non era adatta per quel genere di lavoro li. Era pronto ad iniziare. Nonostante fosse certo dell’inchiostro da lui stesso iniettato nelle cartucce cominciava ad avere qualche sospetto, inconscio ed assillante sospetto. Appoggiò il pennino della prima penna su un foglio bianco. Voleva stabilizzarne il tratto. Se ci fosse stato un tratto.

“Vr!”

Spostò mano e polso per tracciare una linea diagonale dall’angolo superiore sinistro a quello inferiore destro.

“Vrrrrrrrr!”

Nulla. Il foglio rimase bianco con un leggerissimo solco tracciato dal pennino. Si trattenne. Il rispetto per la preziosa penna era ancora molto forte.

“E colpa della densità del liquido colorato! E’ chiaro…” – pensò.

E con due rapidi gesti agitò la penna fino a far schizzare dell’inchiostro sulla scrivania e su uno dei documenti.

“Pazienza” – disse – “almeno ora scriverà”.

Ma non scrisse. E ad usare matite non ci pensava proprio. L’inchiostro era li. Aveva macchiato delle parole qua e là e aveva sporcato il ripiano in legno della scrivania.

Agitò di nuovo la penna e riprovò a scrivere. Provò anche con la seconda ottenendo però gli stessi miseri risultati.

L’inchiostro era ormai ovunque sulla scrivania ma non era disposto a farsi utilizzare per gli aridi scopi dell’Ing.

La mina delle matite non andava bene per tracciare segni su quelle carte. Era disperato. Panorama oscuro, calcoli in sospeso, gocce di inchiostro blu cobalto distribuite senza alcun ordine su tutta la scrivania.

Non poteva proseguire oltre quel tormento. Doveva concludere, ed in fretta. Tralasciando le matite avrebbe potuto usare i pennarelli, ne aveva di alcuni con un bel tratto deciso, dal colore intenso.

“Si, userò i pennarelli! Anche per scrivere. Vorrà dire che riuscirò a leggere anche a distanza sui fogli!” – era contento per quella nuova, risolutiva, decisione. Avrebbe potuto ultimare il tutto in due ore, tralasciando la cena ovviamente, e predisporsi alla telefonata. Per le 22 avrebbe finito. E magari avrebbe anche dato un boccone ad un pezzo di pane.

Bastava scegliere il colore del pennarello ed iniziare. Pensò al nero, ma gli sembrava troppo marcato. Ripiegò sul marrone scuro.

“E se dovesse finire, utilizzerò il blu cobalto!”

Ed il pennarello scrisse. I primi segni di spunta marrone furono finalmente tracciati sul foglio riepilogativo redatto giorni prima.

“Sommare le voci degli scontrini, fatto! Calcolare l’IVA a debito, fatto! Evidenziare gli acconti ricevuti, fatto! Elencare le bollette pagate, f… f…!!”

“Il marrone è finito” – pensò – “quando diamine l’avrò usato mai?”

Cercò il blu cobalto nel cassetto, scartando diversi altri colori. Alla fine lo trovò, tolse il tappo e continuò.

“Elencare le bollette pagate, fatto!” compiaciuto, proseguì sino alla fine della prima pagina senza mancare nemmeno un segno di spunta.

La seconda pagina iniziava con l’elenco delle lettere inviate. Le annotava una per una, anche quelle non lavorative, indicando l’ora, l’oggetto ed un breve riassunto del contenuto. Si giustificava dicendo che ciò l’aiutava a ricordare meglio le fasi delle sue comunicazioni.

Con chi si giustificasse non lo sapeva nemmeno lui; ad ogni buon conto aveva la risposta. Un’inappellabile risposta.

Iniziò a spuntare anche quelle ma già alla seconda lettera (inviata questa al Sig. Verdelli Giacomo Studio, ore 12.34, oggetto: Vs. incarico di vigilanza presso i locali del magazzino paranchi, con cui sollecitava per la terza volta ad inviare una guardia giurata presso il suddetto magazzino per evitare, come peraltro già accaduto, che teppisti e ragazzi di strada sfilassero le corde da ogni gancio e da ogni rotore, costringendo gli operai ogni mattina a riposizionare le funi) il pennarello blu cobalto fece “F!”.

“Solo F?” – disse tra l’incredulità ed un principio di stizza per non meritare nemmeno più due suoni distinti – “Solo F!?!?”.

Aveva capito che oramai anche i pennarelli erano andati. Nessuno di loro l’avrebbe più aiutato a terminare il suo lavoro. Non ci provò nemmeno a riaprire il cassetto dei pennarelli.

Ore 22:05.

Capì. Aprì il cassetto più grande. Sollevò il fondo con le gomme, il fermacarte e i fermagli metallici colorati e prese un piccolo foglio di carta sul quale aveva annotato un numero di telefono, Roberta, che aveva abitato in quella casa di fronte, terzo piano, interno 18.

Sospese i calcoli – mai realmente iniziati – spostò un po’ le carte ma senza la pretesa di far spazio, avvicinò il telefono e compose il numero.

“Pronto, Roberta? Si, sono io…”


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