Izmir, 3 giugno 2013.
“I turchi scelgono accuratamente le date della rivoluzione: 1453/ 1923/ 2013″
Questo uno degli slogan che sventolano all’imbrunire sul Kordon, il lungomare di Izmir, dove solitamente i pescatori si riuniscono all’alba. Più che primavera turca, qui si respira già aria di estate.
Tre date, tre simboli storici. 1453: l’assedio di Costantinopoli, data in cui i turchi ottomani, guidati dal sultano Maometto II conquistano la città dopo mesi di combattimenti. 1923: Mustafa Kemal, detto Atatürk, proclama la Repubblica turca. 2013: la rivolta dei giovani turchi, cronaca della Turchia.
Domenica 2 giugno. Piazza Gündoğdu, Izmir. Ore 19:00.
Ancora una volta prendo posto da spettatrice tra la gente, ancora una volta per documentare con i miei occhi e la mia voce quello che sta succedendo. L’evento Facebook prevedeva la partecipazione di quasi 7000 persone, anche se mi sembrano molte di più. Un fiume di bandiere, di giovani, di madri e padri con bambini, di fidanzati che tra un bacio e l’altro cantano Çav Bella (Bella Ciao). E io, che sempre più attonita mi aggiro tra la folla un po’ stranita. La gente mi spiega che non sono l’unica incredula, che una cosa del genere non si vedeva dai “tempi di Atatürk”, il quale risale ai loro nonni, ben due generazioni fa.
Inizialmente nessuna violenza, nessun provocazione. Clima festoso, inni popolari, e slogan con i quali oramai si convive da tre giorni.
Cala la notte. Inizio a temere che il clima stia cambiando. L’aria pure si fa fredda e pioviggina. Girano voci che nella zona Basmane (luogo dove gli scontri con la polizia sono stati brutali e le provocazioni di gruppi anarchici sono state corrisposte a suon di manganelli), un gruppo di “corpi speciali” stia arrivando a sgomberare (toplamak: verbo che credo non dimenticherò molto facilmente). La gente comincia a mobilitarsi, ad agitarsi. Nella strada che collega la Piazza all’Ikinci Kordon (strada parallela e adiacente al lungomare), arriva una camionetta di quattro tipi loschi che trasportano barre metalliche di varie dimensioni. La folla gli va incontro, arrivano dall’Ötopark (parcheggio/autostazione) di Alsancak. Gli ötoparkci (i tipi loschi del parcheggio) stanno cercando di costruire con l’aiuto dei presenti le famose “barricate”, quelle che finora avevo visto solo nelle manifestazioni di Istanbul su Youtube e che mi erano state vagamente raccontate dai nostri sessantottini italiani. Le barricate, che scopro poi essere state erette in altri due punti strategici del centro, (Cuhmuriyet Bulvari e Piazza Meydani), servono a “bloccare la polizia”. L’organizzazione mi fa quasi paura.
Ore 00:30. Sono stanca e decido di andare a casa. Il clima si fa sempre più pesante e il lunedì mi devo svegliare presto.
Quello che segue è l’arrivo della polizia che intravedo dal balcone. Qualcuno urla:
Resistete! Qualche altro continua a intonare i cori “Mustafa kemalist askerimiz” (Siamo i soldati di Mustafa Kemal). Nella strada si respira gas. “Nefes alamiyorum!!” (Non respiro!!), sento urlare.
Fuori c’è la polizia che arresta “i terroristi nelle strade”. Manifestanti, studenti universitari, genitori, passanti, curiosi, turisti . Che differenza fa?
Su Twitter girano voci che sono state chiamate cinquecento truppe di rinforzo da Manisa (a circa 80 km da Izmir). Ormai non credo neanche più a Twitter, che è diventato divulgatore di false notizie soprattutto tra i gruppi più radicali.. Per strada c’è il deserto.
Ma a proposito, dove sono le migliaia di persone che fino cinque minuti fa erano in strada? La risposta è: nelle case della gente, nel liceo Saint Joseph (liceo francese), nella scuola di danza di Alsancak. Solidarietà tra i cittadini.
Stamattina, il bilancio del governatore di Izmir Mustafa Toprak: “380 attivisti sono stati arrestati a Izmir nel giro di tre giorni. Un ferito grave e 32 agenti di polizia rimasti feriti (il numero dei protestanti gravemente feriti viene però omesso), 31 banche, 17 negozi, 42 uffici, 8 autobus pubblici, e 11 veicoli sono stati danneggiati dalle proteste dei gruppi più radicali infiltrati tra i manifestanti.
Ma anche dagli atti vandalici degli agenti di polizia, come dimostrano i video amatoriali su Youtube cliccando “Izmir Alsancak Gezi Parki”.
Stamattina, 3 giugno, sono uscita presto di casa e sulle strade di Cumhuriyet Bulvari, lo scempio degli scontri. Vetrine distrutte, scritte ovunque, negozianti che pazientemente puliscono il pulibile, armati di straccio e secchio.
Passo davanti all’Istituto di cultura francese, dove sull’insegna con la dicitura “Fransiz” (francese) è stata rimpiazzata la scritta a bomboletta “Türkçe” (turco). Mi chiedo che necessità ci sia. Ho sempre trovato il fanatismo un fenomeno da stadio e da baracconi.
Dai tweet e facebook leggo rabbia e insofferenza. Non solo nei confronti degli attacchi brutali della polizia e dal terrore che è stato seminato da quelle che dovrebbero essere le forze dell’ordine, non dei disordini. C’è rabbia anche nei confronti di chi ha strumentalizzato la manifestazione, con atti vandalici e poco lungimiranti.
Leggo su “Sozcu Gazetesi” le ultime sugli scontri delle altre province turche.
Ankara, ancor lotte in piazza Kizilay, due feriti grave. L’assalto al palazzo del governo.
Istanbul, la notte precedente il quartiere Beşiktaş era in fiamme, dottori volontari sono stati attaccati dai lacrimogeni in piazza Taksim, polizia che spara gas sul muro dell’Hotel Intercontinental.
Ad Antakya (nella provincia di Hatay a confine con la Siria), un ragazzo di 22 anni, Abdullah Comert, perde la vita.
In televisione un comunicato in diretta del PM Recep Tayyıp Erdoğan, che è in visita in Marocco. Sembra indignato dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica Abdullah Gül, il quale ha oggi affermato quello che un po’ grossolanamente traduco dal turco:
“La Turchia è un Paese che crede nella democrazia nel suo funzionamento, e nello stato di diritto. Questi gli standard delle democrazie occidentali. In Turchia le idee, le credenze e i valori di tutti (seppur diversi) vengono rispettati. Viviamo in una società aperta e siamo tutti portatori di diversi pensieri, opinioni e tendenze politiche, quelle credenze per le quali bisogna mostrare rispetto. Ognuno deve sentirsi libero, nella stessa misura sul proprio territorio. Le elezioni nelle democrazie avvengono per volontà del popolo. Ma voglio dire che la democrazia non è solo la scelta dei mezzi. Al di fuori delle elezioni, opinioni ed eventuali obiezioni possono essere espresse in diversi modi. Le manifestazioni pacifiche, ovviamente, fanno parte di uno di questi”.
Il PM Erdoğan ribadisce, inasprito dalle affermazioni di Gül, che la Turchia si siede già sulla democrazia parlamentare da 10 anni, che l’unica primavera turca è quella meteorologica. Che coloro che stanno lavorando per trasformare il caldo estivo in inverno politico sono i “complottisti” del CHP (partito all’opposizione socialdemocratico), che la stampa estera, la quale paragona la Turchia all’Egitto, non conosce il suo Paese. E infine, che gli scontri nelle piazze per “qualche albero” sono stati monopolizzati da un gruppo di radicali “marginali”, che l’ordine deve essere “ripristinato”, che le restrizioni sull’alcol sono state promosse in ragione della riduzione dei numerosi incidenti stradali, e che le normative sugli alcolici sono state prese a modello dai Paesi sviluppati come la Francia.
Oggi riflettevo su Gandhi e sul suo modello di rivolta “non violenta”. Niente urla da stadio, niente barricate, niente fuochi, niente vetrine rotte. Solo persone. Niente strumentalizzazione di manifestazioni a scopo pacifico.
E oggi pomeriggio quello che ho visto sul Kordon di Izmir è stato una millesima percentuale della mia riflessione. Ragazzi universitari, artisti, intellettuali, persone sorridenti. Cartelloni di questo tipo sventolavano tra la folla:
“No alla violenza” (Siddet yok)
“Artisti indipendenti” (Bagimsiz Sanatcilar)
e “Non seguo nessuna ideologia, sto combattendo per la mia libertà” (scritto in inglese e tedesco e italiano, il che mi fa sentire meno straniera)
Questo dovrebbe essere lo spirito della manifestazione. Così cominciò, a Taksim, in un parco dove un manifestante fronteggiava una barricata di poliziotti con un libro di letteratura turca tra le mani.
Perché é la cultura che fa le rivoluzioni. Ma anche le piazze. Come quella di Alsancak, che è ancora viva. Spero che non finisca nella solita nube di gas. E che i giovani turchi portino a termine un altro tipo di rivoluzione. Non ottomana, come quella del 1453, non militare, come quella del 1923. Qualcosa di differente che non voglio etichettare, perché le speculazioni sui modelli democratici tagli e cuci occidentali non sono abiti adattabili a tutte le sagome.
Silcardascia
Fotografie (Ethem Onur Parlar)