di Alessandro Tinti
A quasi tre anni dal ripiegamento dei contingenti statunitensi, l’incerto destino di Baghdad è nuovamente epicentro delle preoccupazioni dell’amministrazione Obama. La recrudescenza della guerra civile e la vasta offensiva scagliata dall’IS hanno travolto le residue illusioni di un disimpegno responsabile dallo scenario iracheno che l’esecutivo democratico ha tentato programmaticamente di assicurare sin dal proprio insediamento ed hanno anzi imposto un’indesiderata quanto critica proiezione di forza al fine di tamponare lo sgretolamento della contestata sovranità del governo centrale.Se nel biennio 2007-2008 il disegno strategico (“the new way forward”) depositato nelle mani di David Petraeus aveva arginato gli scontri tra le milizie sciite e sunnite, quasi riuscendo ad annichilire la struttura operativa dei jihadisti di al-Qaeda, la situazione odierna appare tuttavia quanto mai insidiosa sia sul piano delle opzioni militari, che su quello degli orientamenti diplomatici. Washington preme per l’adozione di una “one Iraq policy”, patrocinando un processo politico inclusivo che ricomponga le laceranti fratture etniche e settarie violentemente riaffiorate nella società irachena. Ciononostante è legittimo convenire con Kenneth Pollack, già consigliere del National Security Council ed allora acceso sostenitore di Iraqi Freedom, che gli interessi statunitensi eccedano l’effettiva capacità di influenzare gli eventi secondo la direzione auspicata[1].
Sebbene l’avvicendamento del Primo Ministro Nuri al-Maliki con Haider al-Abadi ponga le condizioni per un rinnovamento parziale della dirigenza irachena, l’intensità del conflitto e la polarizzazione degli attori coinvolti restituiscono l’immagine di un Iraq profondamente spaccato lungo divisioni antiche dapprima liberate dal rovesciamento del regime baathista di Saddam Hussein ed oggi esasperate dagli effetti esiziali di una stabilizzazione largamente inattuabile e falcidiata sia dalla falsa partenza di un sistema produttivo inefficientemente ancorato alla sola industria petrolifera, sia dalla collisione di agende politiche incompatibili. Il fallimento strategico inscritto nel collasso del ricostituito ordine iracheno risalta alla luce dei costi enormi sostenuti dalla superpotenza per fronteggiare un’esposizione più che decennale nel Paese, ma i provvedimenti d’urgenza deliberati da Obama testimoniano la necessità di recuperare terreno rispetto ad una crisi suscettibile di intaccare complessivamente la stessa presenza americana nella regione.
Anche laddove il progetto di califfato proclamato da al-Bagdhadi lo scorso 4 luglio si dimostri insostenibile nel medio periodo, il consolidamento delle conquiste dell’IS ha radicato un cuneo di instabilità che grava su ed attrae pericolosamente le matrici di conflitto e le dinamiche geopolitiche che infiammano il Medio Oriente: non solo gli urti della guerra parallela combattuta in Siria ed il contagio ideologico del nuovo jihad internazionale, la conflagrazione dello scenario iracheno alimenta pure l’incipiente linea di faglia tra sunnismo e sciismo e si riverbera sulle posizioni tenute dai vicini regionali (principalmente Iran, Giordania, Turchia e le monarchie petrolifere del Golfo), aprendo una finestra di potenziali opportunità per i competitor globali (Federazione Russa e Cina) che mirano ad erodere le relazioni egemoniche della superpotenza. In questa prospettiva la frammentazione dell’Iraq, oltre alla minaccia immediata di un’enclave terroristica in grado di finanziare un network sovranazionale grazie ai proventi dello sfruttamento dei pozzi occupati, attenta alla sicurezza degli alleati americani nell’area ed incide sui delicati negoziati avviati con Teheran per educarne le ambizioni espansive. Per queste ragioni la risposta concertata dagli Stati Uniti assume un valore decisivo all’interno dell’ennesima e pur sempre provvisoria ridefinizione dei rapporti di forza nel contesto mediorientale. Se difficilmente il prestigio e l’influenza di Washington ne usciranno rafforzati, per converso gli effetti dannosi dell’inazione ovvero di un intervento confuso e non attentamente ponderato potrebbero comprimerne drasticamente il peso politico negli equilibri regionali. È dunque in Iraq che, significativamente, Obama gioca il senso compiuto di una presidenza ad oggi opaca, determinata a ricucire gli strappi della precedente gestione Bush ma lo stesso incapace di articolare una politica estera di ampio respiro in grado di rilanciare il tramontato primato americano in un sistema internazionale in rapida evoluzione.
Questo Research Paper intende presentare la lettura strategica dell’avanzata dell’IS e della precarietà delle istituzioni irachene così come fissata dai vertici politici e militari degli Stati Uniti. Ad una previa contestualizzazione dei fattori scatenanti l’attuale spirale di violenza e delle fazioni che vi hanno preso parte attiva, seguirà perciò una ricostruzione delle decisioni prese e delle opzioni vagliate dalla leadership statunitense in riferimento agli interessi strategici perseguiti ed all’interazione con gli attori (interni ed esterni) che detengono un ruolo rilevante nel conflitto.
Scarica gratuitamente il Research Paper N°22/settembre 2014: ”La sfida dell’IS e la strategia di Obama“
Photo credits: Andalou Agency
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