Magazine Diario personale

La Spicajola

Da Antonio

Mestiere prevalentemente femminile, e ciò giustifica la desinenza.
La venditrice di pannocchie di granturco si appostava – e si apposta – all’imbocco di un vicolo o in un qualsiasi angolo popolato di città. Una volta raccolte le spighe in campagna, le cuoceva e le rivendeva. Proponeva, in bell’offerta, spighe arrostite su un braciere oppure lessate in un gran pentolone di rame ricolmo, fino al tempo dell’inquinamento, di acqua marina naturalmente salata. Le più nomadi trascinavano pentole e/o fornello su un “carruocciolo” di legno provvisto di piccole ruote.
Essendo i napoletani «ghiotti di grano d’India» come scrisse De Jorio, le “spicajole” sono entrate a far parte del panorama estivo di Napoli. Oggi, con le importazioni e gli artifici della scienza, si procurano la materia prima pure nei mesi meno caldi.
In napoletano le spighe sono diventate “pullanchelle”, cioè simili a galline giovani e tenere. Con questa avvertenza potrete agevolmente tradurre alcuni antichi slogan di propaganda: «Pullanchella tenera, pullanchella!», oppure «Pullanchella, ‘nce sta ‘o latte», con riferimento a quell’umore bianchiccio che trasuda dagli acini freschi.
Altre grida pittoresche: «Fattella n’ata magnata, Maria tene le sciabbule!», cioè spighe lunghe come una sciabola; «Teneno ‘o tutaro d’oro sti pullanchelle» (tutaro è il torzolo) e, per estensione, un pezzo di legno cilindrico. Oppure: «Doje, Doje…manco ‘o ffuoco me paghe».
Ultima ironica voce: «Assortite, assortite! Oggi ve ne magnate una e dimane jate ‘o Cutugno», e il Cutugno è l’ospedale per le malattie infettive.



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