Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei
(M. Heidegger)
In un recente incontro organizzato a Bressanone per presentare il “Manifesto 2019”, cioè il documento di intenti elaborato da un gruppo di cittadini che desiderano “chiudere l’attuale stagione dei veleni e delle tensioni etniche” (il nostro giornale ne ha già ampiamente parlato), una persona del pubblico ha commentato: “Io vorrei che nel Sudtirolo del 2019 non ci fosse più bisogno di ricorrere alle traduzioni e agli interpreti: tutti dovrebbero essere finalmente in grado di capire quello che dicono gli altri e parimenti essere capiti senza problemi”. Una speranza di questo tipo è certamente condivisibile dal punto di vista pragmatico ed economico (pensiamo a quanti soldi si risparmierebbero). Sorge però il dubbio che insieme alle traduzioni (e ai traduttori) possa sparire qualcosa d’irrinunciabile e vorrei spiegare brevemente il perché.
E’ opinione largamente condivisa che una traduzione sia necessaria per trasformare (o forse solo per far passare) un testo scritto in una lingua in un’altra quando qualcuno (il destinatario della traduzione) non è in grado di comprendere la lingua di partenza. E una volta compiuta, una volta quindi risolto il problema della comprensione, della traduzione non abbiamo più alcun bisogno e non è comunque interessante soffermarsi ulteriormente sul suo particolare procedimento. Eppure ciò corrisponde a una visione alquanto semplice e utilitaristica del compito e perfino dell’essenza di una traduzione. Il filosofo tedesco Martin Heidegger, secondo il quale l’intera ontologia occidentale (vale a dire la configurazione entro la quale è possibile per noi articolare il rapporto con l’“essere”) addirittura si riduceva a un problema di traduzione tra le epoche del suo sviluppo storico, una volta ha per esempio detto che “il tradurre non si muove unicamente fra due lingue diverse, (ma) anche all’interno della stessa lingua c’è un tradurre” (M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister”, GA Band 53, Klostermann, Frankfurt am Main, 1984). E questo perché ogni traduzione esplicita in realtà una soggiacente attività interpretativa che sta alla base di ogni uso linguistico, misurando quella profonda stratificazione di senso che diventa compiutamente percepibile solo nel colloquio (Zwiesprache) di una parola con un’altra.
Ma lasciamo le “altezze” della filosofia e planiamo nuovamente sul nostro Sudtirolo. Auspicando senz’altro un affrancamento dal bisogno di ricorrere sempre e comunque al servizio di traduzioni rese necessarie da una insufficiente comprensione delle lingue parlate in provincia, si tratta anche di rivalutare l’attività del tradurre quando essa può contribuire al piacere della conoscenza di chi si dimostrerà, proprio per questo, sempre più esperto e capace di apprezzare il plurilinguismo e le sfumature dei significati che s’illuminano nel gioco di rimandi reciproci tra una lingua e l’altra. Un Sudtirolo popolato da un numero cospicuo di bravi e raffinati traduttori è senz’altro uno scenario più allettante e futuribile del suo contrario.
Corriere dell’Alto Adige, 22 luglio 2011