La troika e madame Emma. Ma che bell’Italia!
Creato il 22 agosto 2011 da Massimoconsorti
@massimoconsorti
Berlusconi non è la Thatcher, e probabilmente Maurizio Sacconi non è John Moore, ma quello che ha accomunato e accomuna due esperienze politiche molto diverse tra loro è la strategia antisindacale che hanno perseguito con indiscutibile successo fin dall’inizio dei rispettivi, decennali, poteri. Il modello economico ispiratore della Lady di Ferro era il liberismo di un certo premio Nobel Milton Friedman, quello di Silvio Berlusconi il “facciamoci i cazzi nostri cari fratelli incappucciati” di un certo Maestro Venerabile della loggia massonica P2, Licio Gelli. Il primo partiva dall’idea che lo Stato dovesse uscir fuori da ogni forma possibile di mercato (anti-keynesianismo esasperato), lasciando alle imprese la libertà di competere costi quel che costi, tanto che il suo motto era “laissez-faire”. Anche il secondo è partito dalla teoria del “lasciar fare” però trasformandola in “lasciateci fare”, che non ha solo una differenza di suono riconducibile all’onomatopeica, è proprio un diverso fondamento. E per permettere alle imprese, e quindi al mercato, di fare quel che vogliono, occorre abbattere l’unico ostacolo che le regole democratiche di un paese civile pongono sulla strada del liberismo: il sindacato, la forza sociale in grado di assicurare un minimo di tutela a chi il liberismo lo subisce. La strategia della Thatcher fu quella del silenzio tanto che, quando nel 1984 iniziò il lunghissimo sciopero ad oltranza dei minatori (episodio rimasto nella storia politico-economica più nera dell’Inghilterra), la Lady di Ferro fece chiaramente intendere che il suo governo non aveva nessuna intenzione di intervenire per dare una risposta concreta alle richieste dei minatori e non solo, la “perla” politica fu che riuscì a isolare il sindacato semplicemente non considerandolo più un interlocutore. In Italia la situazione non era granché diversa. Il primo governo Berlusconi divenne da subito bersaglio della “triplice”, che aveva già subodorato quanto Silvio si ispirasse alla politica economica della Margaret capo della perfida Albione. Qualcuno ricorderà che all’inizio del suo mandato, Silvio aveva individuato fra i nemici da combattere anche il sindacato, oltre ai comunisti, agli intellettuali di sinistra e alle coop, solo che, a differenza della collega inglese, scelse una strategia molto italiana, quasi machiavellica, il “dividi et impera” che portò ben presto all’isolamento della Cgil, ritenuta fra i tre la più pericolosa. C’è da aggiungere che la Cgil era anche la nemica giurata del figlioccio del discotecario socialista Gianni De Michelis, cacciato dalla vita politica in malo modo da Mani pulite, che risponde al nome di Maurizio Sacconi il quale vede ancora oggi come fumo negli occhi, tutto ciò che gli ricorda anche lontanamente una bandiera rossa. Sacconi trovò un terreno fertilissimo. La Cisl e la Uil, ansiose di continuare a mantenere inalterati (e inattaccabili) i privilegi maturati negli anni, frutto di lotte condotte unitariamente, iniziarono con i distinguo, le puntualizzazioni, le firme sui contratti separate. Cominciarono insomma a temere un ministro che minacciava di toglierli dai consigli di amministrazione degli enti statali, parastatali e locali, di azzerare i contributi ai loro patronati, di eliminare l’automatismo delle ritenute sindacali in busta paga e nelle rate delle pensioni, di non considerarli più come “controparte” sociale privandoli di qualsiasi delega di rappresentanza. L’unica a tentare di resistere fu la Cgil di Cofferati. Pezzotta della Cisl disse “si può collaborare”, e oggi è un deputato casiniano dell’Udc, mentre Angeletti della Uil non ci pensò due volte a salire sul carro dei vincitori. Cofferati, ed Epifani dopo di lui, sono stati per anni l’unico baluardo nei confronti del liberismo pro domo sua di Silvio, quelli che hanno provato a dire “prima di firmare ci vogliamo pensare”, quelli dell’”orgoglio” sindacale nelle piazze pronto a manifestare. Poi alla Cisl è arrivato Bonanni e il cerchio si è chiuso. Amico di Sacconi, della Marcegaglia e di tutti quei soggetti politici ed economici che avrebbero dovuto essere la controparte di un sindacato serio, Bonanni ha deciso, trovando nel solito Angeletti l’alleato più disponibile, che la “triplice” aveva fatto il suo tempo e allora “via ad accordi separati e fuori la Cgil”. Per chi ha corta memoria, ricordiamo ciò che Bonanni disse di Marchionne: “Sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat. Grazie a Dio c’è un abruzzese come Marchionne”, ricordando le comuni origini essendo entrambi nati in provincia di Chieti. E mentre Bonanni flirtava con Marchionne, e con tutti gli industriali e i ministri possibili, gli uomini di Angeletti, mogi mogi quatti quatti, si facevano i cazzi loro infilando amici e parenti all’Atac, che sembra essere diventata la cloaca massima di parentopoli. Del caso di Sambuci, ameno centro agricolo sublacense di 900 abitanti, parlò “Presa diretta” in una puntata di qualche tempo fa. E lo fece per dire che, essendo il paese che aveva dato i natali al segretario regionale della Uil, Giancarlo Napoleoni, miracolosamente aveva un tasso di disoccupazione vicino allo zero: quasi tutti risultavano infatti nel libro paga dell’Azienda dei Trasporti della Capitale. Caustico il commento di un cittadino di Sambuci su Facebook: “Ci manca solo il parroco e poi sono tutti occupati”. Queste sono Cisl e Uil. Il caso della Cgil è più complesso, visto che al suo interno convivono da sempre anime diverse, sensibilità diverse e non sempre disposte al confronto perdente fin dall’inizio. L’anima Fiom, ad esempio, è quella che quando sente puzza di ricatto si mette di traverso (oggi c’è anche l’anti-camussiana “Cgil che vorremmo”, ma è un’altra storia). Con loro i modi spicci non funzionano né, atei e miscredenti come sono, credono che ci siano industriali unti dal signore. Questa è una delle ragioni per le quali quando “grazie a dio c’è Marchionne”, ha posto un aut aut al sindacato del tipo “o ci state o chiudiamo”, quelli della Fiom tutto hanno fatto meno che starci. Landini, e ultimamente Airaudo, hanno spiegato, a chi non vuole capire o fa finta, che Marchionne non ha alcuna intenzione di investire quei famosi 20 miliardi in Fiat che dovevano essere la conseguenza del “si” al referendum fra gli operai sul suo piano di rilancio. E la riprova è che Fiat è andata giù dell’11 per cento in borsa, che cerca di vendere ancora 500 e Panda e si è inventata un Suv che, dato il costo, non comprerà nessuno. Dire no a Marchionne significa essere massimalisti? Protestare sui tetti della fabbrica per vedere riconosciuti i propri diritti è massimalismo? Oppure vale la ricetta “Camusso” che firma un accordo con Cisl, Uil e Confindustria nel quale la “contrattazione” viene sostituita dalla “complicità” e dalla “correità”? Quell’accordo così come è stato formulato, serve solo agli industriali. Ma forse affermare un concetto del genere è massimalista. La crisi c’è, è mondiale, in Italia sembra addirittura irreversibile. E siccome c’è la crisi ognuno deve fare la sua parte e pagare di più, specie se il reddito da tartassare ha la ritenuta alla fonte. Perché non chiediamo agli operai tedeschi e francesi per quale motivo non hanno subito nessuna modifica peggiorativa di trattamento? Perché non chiediamo alla Francia e alla Germania perché non hanno distrutto il welfare come sta invece tentando di fare l’Italia? In Cina, e parliamo della Cina, gli operai stanno iniziando ad avere un trattamento economico diverso. I cinesi si sono accorti che non basta l’export per far salire il Pil, ma occorre che anche i consumi interni aumentino. La mano d’opera cinese salirà di costo e finirà per rendere, nel tempo, meno appetibili gli investimenti stranieri. Da noi si pensa ad aumentare di un punto percentuale l’Iva. Il nostro incentivo ai consumi è questo, e che fanno i sindacati? Stringono un patto di ferro con Emma Marcegaglia che vuole rivedere le pensioni di anzianità e dice no alla patrimoniale. E poi uno scende in piazza e proclama lo sciopero generale ad oltranza.
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