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La Turchia in UE, una storia al bivio

Creato il 23 dicembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Alessandro Dalpasso

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La Storia dell’uomo è costantemente segnata da confini che inevitabilmente si allargano e si ampliano. Molto spesso però manca in contemporanea ad un allargamento geografico un’espansione di vedute che consenta alle nuove conoscenze di andare a braccetto con le nuove consapevolezze. É ciò che sta accadendo dal 1963 a questa parte, da quando l’allora CEE (Comunità Economica Europea, predecessore dell’attuale UE) firmò il Trattato di Associazione con lo Stato turco chiamato Accordo di Ankara. Dopo la brutta battuta di arresto subita nel 2010 quando si svolse l’ultima Conferenza di adesione, dall’autunno di quest’anno sono finalmente ripresi i negoziati di adesione grazie all’apertura del Capitolo 22 relativo alle politiche regionali e di coordinamento degli strumenti strutturali. Un passo che ha peraltro preceduto di poco la firma dell’accordo per la riammissione degli immigrati clandestini e l’avvio dei negoziati per la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. Ma quali sono le principali difficoltà riscontrabili sul cammino che dovrebbe portare lo Stato della Mezzaluna nell’Unione?

Una delle problematiche spesso presentate di fronte all’istanza di adesione della Turchia, e per fortuna la più banale, è la mera questione spaziale. In effetti, cartina geografica alla mano, la sola Istanbul (tra le città degne di nota) e una minima parte del territorio turco sono situate sulla parte occidentale del Bosforo in quello che potremmo definire come territorio europeo (il 3% del territorio totale contro il 97% sito invece in Asia). Il ragionamento alla base di questa obiezione è semplice e, per certi versi, condivisibile: l’Europa non sente la necessità di avere confini in comune con Stati come la Siria, l’Iran e l’Iraq per timore di veder venir meno quel grande spazio di sicurezza comune così difficilmente preservato.

Ma d’altro canto con l’ingresso della Turchia, l’Unione potrebbe contare sul secondo esercito per grandezza all’interno della NATO. Inoltre la sopracitata Istanbul perfettamente rappresenta quella “unione di diversità” alla base dell’integrazione europea: una città in territorio europeo ma dal respiro orientale, estremamente vivace dal punto di vista culturale, giovane e propositiva come poche altre nel mondo. Senza contare che un’eventuale allargamento in questa direzione potrebbe rinvigorire le relazioni con regioni del mondo in rapida crescita: con il Caucaso e l’Asia Centrale così ricchi di risorse energetiche e con il Medio Oriente che sta cercando di emergere dalle ceneri della cosiddetta “Primavera Araba”. Questi elementi rendono quindi la sua posizione geopolitica estremamente favorevole.

Seconda problematica, già più sensibile della precedente, è la questione meramente politica. La Turchia non è una democrazia matura in stile europeo: la sua politica a livello interno resta caratterizzata dallo scontro tra l’identità militare frustrata dall’emarginazione politica e i timori di nazionalisti e liberali per una deriva islamista. I diritti umani non sono sempre rispettati, specialmente nei confronti della categoria dei giornalisti, oltre ad esser ancora vivide nella memoria le manifestazioni di Gezi Park. Il rapporto annuale di Amnesty International evidenzia la violazione di diritti umani di ampia portata, descrivendo nel dettagli gli eccessi del comportamento della polizia durante le proteste. Non di meno l’UE si troverebbe di fronte alla necessità di gestire la questione curda: per quanto Bruxelles abbia apprezzato il tentativo di Ankara e del PKK di superare il conflitto, il problema resta concreto e coinvolge la sfera dei confini con la Siria e l’Iraq.

Bisogna però considerare che la Turchia è già una democrazia vibrante. La prospettiva di adesione all’UE ha stimolato le riforme che rafforzano la politica del pluralismo e che aiutano a rendere accettabile la questione dei diritti umani. L’ingresso nello spazio comunitario fornirà l’incentivo per completare le trasformazioni, senza dimenticare che la Turchia è un forte e leale alleato della NATO e quindi già avviato su un cammino riformista che sembra già tracciato.

Tralasciando la questione strettamente connessa all’adesione, l’Europa si troverebbe inoltre di fronte alla necessità di gestire il peso diplomatico (oltre che quello relativamente al voto all’interno delle Istituzioni) che Ankara eserciterebbe dentro e al di fuori dai confini dell’UE. Senza considerare che tornare indietro sullo status assegnato è impossibile.

Venendo ora alla questione che maggiormente tocca gli interessi della “pancia” di Bruxelles, risulta utile analizzare pro e contro della questione economica.

Nonostante la recente crescita, la Turchia rimane un’economia arretrata. Il suo PIL pro capite di 14.600 dollari è inferiore alla metà della media UE. L’ingresso di un Paese comunque definibile come povero sarebbe una pressione insopportabile sulle sue finanze. La ricchezza della Turchia è diffusa in modo diseguale, il che significa che un eventuale ingresso nell’Unione potrebbe essere un miraggio fin troppo appetibile per un esercito di immigrati poveri che si riverserebbero verso Ovest, unendosi ai già circa 9 milioni di Turchi che vivono oggi nell’UE.

Il contraltare di tutto questo è lampante però: l’economia marcia a ritmi sostenuti e la crescita media del 7% per il primo decennio del Secolo ha resistito alla crisi finanziaria globale molto meglio di quanto ha fatto la maggior parte dei Paesi dell’Unione. Lo stato di salute delle sue finanze pubbliche è migliore di quello dei cosiddetti PIGS. Il reddito pro-capite è aumentato di sei volte negli ultimi dieci anni e la media turca è ora migliore di quella dei suoi omologhi rumeni e bulgari nell’Unione europea. Un dato interessante è che solo New York, Londra e Mosca hanno più miliardari residenti nel loro territorio di Istanbul. Tutto questo potrebbe iniettare nuova vitalità nell’economia europea, così come l’aggiunta di 75 milioni di consumatori al mercato unico.

Ma l’aspetto cruciale della questione, quello più bistrattato dall’opinione pubblica ma che si potrebbe rivelare il main point di future frizioni con quello che si profila essere la ventinovesima stella, è quello più prettamente culturale.

Le radici storiche e culturali della Turchia giacciono in Asia Centrale e in Medio Oriente. Il Paese ha mancato, naturalmente non per volontà propria, le esperienze condivise che legano gli Europei: dal retaggio culturale del Rinascimento e dell’Illuminismo, punti più alti del progresso scientifico e culturale del Vecchio Continente, agli orrori della Seconda guerra mondiale, il punto più basso, ma che hanno portato con sé i semi che hanno galvanizzato gli ideali per l’Europa unita. Vi è infine l’aspetto religioso: come una nazione a stragrande maggioranza musulmana, le tradizioni culturali della Turchia sono fondamentalmente diverse da quella dell’Europa cristiana.

È vero però che la storia della Turchia è stata completamente intrecciata a quella dell’Europa da quando gli Ottomani attraversato il Bosforo nel quattordicesimo secolo. Il patrimonio culturale della Turchia è di una ricchezza unica, ma è anche innegabilmente europea come influssi.

L’ interazione storica della Turchia con l’Europa è sempre stata più da minaccia esterna piuttosto che da polo dialettico con il quale progredire in un contesto di reciproco scambio di conoscenze. Raggiungere l’obiettivo di adesione e accettare quella che è, con tutte le sue sfumature, una  prospera democrazia musulmana, invierebbe un segnale chiaro sul fatto che l’Europa è aperta alle diversità e, nel caso particolare, al mondo islamico. L’adesione all’UE sarebbe simbolico del successo della Turchia come una nazione islamica e laica (che sembra un paradosso) e un modello per gli altri Stati, dal Marocco all’Indonesia.

Procedendo verso le conclusioni c’è una constatazione da fare: da quando Ankara aspetta il suo turno, ventuno Paesi sono entrati a far parte dell’UE. I motivi della sua esclusione sono politici e culturali, e se i secondi non sono modificabili e sono da accettare così come sono nella loro diversità, i primi non sembrano destinati a cambiare tanto presto. La Turchia ha iniziato i negoziati per l’adesione quando sei Stati erano sotto la bandiera della CEE. Ora gli Stati sono ventotto e si raccolgono sotto la bandiera dell’UE ma l’adesione è ancora lontana. Ora: in un’Unione composta anche da Estonia, Lituania, Romania, Bulgaria e Croazia perché uno Stato così vivo non potrebbe farne parte?

Infatti qui entrano in gioco le motivazioni politiche (e geopolitiche) di cui sopra: all’inizio degli anni Novanta con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Comecon si è ritenuto necessario procedere verso l’integrazione di questi Paesi attraverso i noti strumenti di associazione e stabilizzazione, di modo che, tra le altre cose, essi non ricadessero sotto l’influenza di Mosca. Se il ruolo politico rivestito dalla Turchia è apparso di minore importanza è stato anche dovuto alla stessa volontà politica dei quadri dirigenti comunitari.

Quello che non si riesce a capire è che la parola ‘mai’ non esiste nel vocabolario dell’UE. Siamo arrivati al punto in cui l’oggetto della discussione non è più se ‘la Turchia potrà diventare un membro’ ma se ‘la Turchia vuole diventare membro” scrive il quotidiano turco Milliyet. Come si può notare anche questo è un indice di un condiviso sentimento di scoramento nei confronti dell’Europa (che in recenti sondaggi è attestato attorno al 74%) che è dannoso in entrambe le direzioni: nei confronti del domandante perché oltre ai problemi che si pongono alle proprie porte, come nel caso dell’Ucraina, vi è il rischio di un diffuso sentimento di euroscetticismo dal potenziale sempre più destabilizzante. Dal punto di vista invece dell’Unione Europea sarebbe un colpo durissimo per la credibilità di un soggetto che vuole essere uno dei principali attori sul piano internazionale.

Intraprendere un dialogo costruttivo e secondo una traiettoria coerente potrebbe essere la soluzione all’annosa questione. Appianare gli ostacoli sulla strada dell’integrazione è possibile, ma il principale punto resta scoprire se vi è una volontà condivisa.

* Alessandro Dalpasso è iscritto al corso di laurea in Giurisprudenza (Università di Torino)

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Photo credit: Photo Credit: Commissione europea

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