di Simone Vettore
L’enciclopedia Treccani ci ricorda che il termine sahel è l’adattamento in italiano della parola araba sāhil, usata frequentemente in Africa per indicare le pianure costiere (quali quella algerina o tunisina) ma finita, per estensione, a designare tutte le zone di contatto tra deserto e steppa ed in particolare l’orlo meridionale del Sahara [1], ovvero quell’area di passaggio climatico dall’arido deserto alla più fertile savana.
Si tratta, dunque, di un termine nato in ambito squisitamente geografico ma che negli ultimi tempi è entrato prepotentemente nel dibattito (geo)politico occidentale: com’è stato possibile tutto ciò? Di più: cosa ha fatto balzare agli onori della cronaca un’area della quale ci giungevano rade notizie o attraverso le riprese di qualche documentario dedicato a questa inospitale terra oppure, tragicamente, in occasione delle terribili carestie che ne affliggono periodicamente la popolazione?
Dal punto di vista mediatico, indubbiamente, l’immagine che è passata sui mass media è stata quella delle milizie islamiste che avanzavano trionfalmente nel nord del Mali, distruggendo i celebri mausolei della città carovaniera di Timbuctù, al punto da rendere necessario l’intervento militare francese (Operazione Serval): il paragone con la distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani era troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire né, step successivo, ci si poteva trattenere dal profetizzare un tanto tragico quanto ineluttabile parallelo tra l’Afghanistan, santuario dei terroristi islamici per antonomasia, e lo Stato africano, destinato a trasformarsi in una pericolosa base logistica/centrale di irradiazione dell’Islam radicale nel Continente nero. Quale miglior spauracchio per calamitare l’opinione pubblica occidentale?
E bisogna dar atto ai giornalisti, fedeli al motto che bad news are good news, di aver fatto egregiamente il loro lavoro, descrivendo la situazione in modo ancor più cupo di quanto effettivamente fosse. Difatti, una volta riconosciuto che molto probabilmente l’esercito regolare maliano, e con esso quel poco che rimaneva delle istituzioni statali (già provate dal coup del marzo 2012), sarebbe crollato senza il provvidenziale intervento francese [2], va altresì evidenziato come le capacità operative, specie quelle extrateatro, dei vari gruppi attivi nell’area erano e restano assai limitate così come il loro interesse ad operarvi al di fuori. Pertanto lo spettro di un’afghanizzazione della regione del Sahel (da qui il neologismo Afrighanistan) sarebbe, se non del tutto almeno in buona parte, una montatura ad arte di giornalisti e di alcuni influenti analisti [3].
Una volta svelati gli eccessi mediatici e ribadita la necessità di affrontare la questione in modo pacato, è opinione di chi scrive che una impostazione eccessivamente “riduttiva” sia pericolosa perlomeno quanto quella “allarmista” che si vorrebbe confutare.
In particolare, cercando ora di rispondere alla prima delle domande poste in sede introduttiva, è assolutamente vero che l’eco data all’azione delle milizie islamiste operanti nell’area è stata eccessiva, specie considerando che almeno fino allo spettacolare attacco all’impianto di trattamento del gas di In Amenas (17 gennaio 2013) il metodo tipico per colpire obiettivi occidentali consisteva nel “classico” rapimento dei pochi turisti ed operatori umanitari che si avventuravano nella zona, vale a dire secondo linee ricalcanti quelle dei predoni del deserto di letteraria memoria [4], frammischiate a qualche gesto più eclatante, com’è il caso dei periodici attentati alle rappresentanze diplomatiche. Si tratta della riprova che, nel Sahel come altrove (Siria, Libia, Afghanistan), la linea di demarcazione tra attività terroristiche e criminalità più o meno organizzata è quanto mai labile.
Da quest’ultima osservazione derivano alcune considerazioni interessanti: in primo luogo questa alternanza fra/compresenza di commerci (per quanto illegali) ed attività terroristiche fa sì che gli obiettivi dei vari gruppi non siano di vasto respiro. Ai vari gruppi operanti nel Sahel, almeno per il momento, non interessa l’attentato da prima pagina in Europa o negli Stati Uniti ma, al contrario, preme assicurarsi il buon andamento del proprio business, qualunque esso sia.
L’eterogeneità degli interessi in ballo consente nel contempo di capire il perché dell’elevata parcellizzazione dei gruppi operanti nella zona nonché il continuo rimescolamento delle alleanze [5]: pertanto se si vogliono valutare appieno le loro effettive “capacità operative” è opportuno contestualizzare i fatti, ricordando che i successi degli islamisti in Mali sono stati resi possibili da una parte dallo sfaldamento delle strutture statali (esercito in primis) a seguito del ricordato colpo di Stato, dall’altra dall’alleanza, frutto di eventi contingenti difficilmente ripetibili (come la caduta del regime libico di Muammar Gheddafi e l’accesso agli arsenali di quest’ultimo), tra islamisti e ribelli tuareg con i primi che, a detta di alcuni analisti, abituati a godere della protezione di funzionari statali collusi, con il venir meno del loro supporto hanno deciso di compiere il gran passo assumendo essi stessi il controllo del territorio. Sarebbe stato dunque lo sfaldamento dello Stato maliano ad indurre i ribelli all’azione e non i ribelli a condurlo sull’orlo del fallimento.
Viene così smentita quella corrente di pensiero che sostiene che la presenza di “buchi neri” geopolitici sia un obiettivo perseguito scientemente dai terroristi per meglio gestire quei traffici necessari al proprio autofinanziamento. Infatti, sostengono i detrattori di questa tesi, posto che il nesso terrorismo – traffici illegali – criminalità non è così lineare come si vorrebbe, talvolta la presenza di Stati, se non esplicitamente compiacenti perlomeno disposti a chiudere un occhio, è più che sufficiente a renderli sicuri.
È stato di conseguenza sottolineato come l’eccessiva attenzione per la regione, con il dispiegamento di truppe straniere, finisca in ultima analisi per ostacolare/danneggiare tutti i traffici, anche quelli innocui per quanto illegali (si pensi al contrabbando di benzina), sui quali si basa parte dell’economia locale e come ciò significhi per molti giovani la perdita del “lavoro”, spingendoli tra le braccia di quel terrorismo che si vorrebbe debellare.
La risposta occidentale, quindi, per come si è configurata finora (ovvero con approccio prettamente militare), non solo sarebbe inefficace, non andando essa ad incidere sui nodi strutturali, ma pure controproducente.
Quest’ultima riflessione ci obbliga a confrontarci con le scarne “basi materiali” sulle quali può contare l’area, conducendoci di riflesso al secondo quesito posto all’inizio di questo articolo ed ancora in attesa di risposta: com’è che il Sahel è entrato nel dibattito geopolitico pur non esistendo uno “Stato Sahel” con confini, istituzioni e popolazioni proprie?
Probabilmente la risposta risiede nel fatto che il Sahel pur essendo, per dirla con Metternich, “un’espressione geografica”, possiede nel contempo una “omogeneità” di fondo tale da far apparire lecito considerarlo come oggetto delle costruzioni geopolitiche e delle (eventuali) azioni che da queste ultime scaturiscono. Difatti, pur individuando una vastissima fascia del continente africano (lunga circa 6000 kilometri con una superficie di 3 milioni di Km²; n.d.r.) che si snoda dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso attraversando parti più o meno consistenti dei territori di Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Algeria, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea, la presenza di medesime condizioni geo-climatiche fanno sì che le strutture socio-economiche siano, al netto delle inevitabili diversità locali, sostanzialmente simili e di conseguenza i problemi e le sfide che i vari Stati della zona si trovano a dover risolvere comuni.
In particolare, lungi dall’abbandonarsi nel determinismo geografico, la scarsità di precipitazioni che contraddistingue l’area impedisce la pratica di un’agricoltura intensiva ed al contrario impone alle popolazioni di dedicarsi soprattutto alla pastorizia seminomade od al più ad una agricoltura estensiva, attività del tutto insufficienti, nei numerosi periodi di siccità, ad impedire il verificarsi di gravi carestie.
Proprio la maggior frequenza con la quale si ripropongono simili fenomeni, ai quali gli inefficienti apparati burocratici locali non riescono a supplire che in minima parte, è uno dei fattori che stanno contribuendo a modificare la struttura socio-economica tradizionale. In quale modo? In occasione di ogni carestia gli abitanti del Sahel sono costretti a dare fondo alle scorte di cibo difficilmente accantonate nelle stagioni abbondanti; purtroppo l’intervallo sempre più breve tra un episodio e l’altro impedisce loro di ricostruirne in quantità sufficiente, motivo per cui essi si trovano del tutto privi di “ammortizzatori” e si vedono obbligati ad abbandonare le campagne affluendo nelle città, dove nella migliore delle ipotesi si dedicano a commerci spiccioli o vivono di elemosina e nella peggiore, per l’appunto, entrano in organizzazioni criminali e/o terroristiche [6].
Pure nel Sahel, dunque, il processo di urbanizzazione sta subendo un’accelerazione anche se complessivamente il paesaggio resta scarsamente antropizzato: appena 100 milioni di abitanti con poche città degne di questo, seppur talvolta con alle spalle una storia millenaria (oltre alla citata Timbuctù da ricordare anche Dienné e Gao sempre in Mali, Agadez e Bilma in Niger e Oudane in Mauritania); infatti il Sahel, e qui risiede oggi come un tempo la sua importanza strategica, è una cerniera naturale lungo l’asse nord-sud, ovvero tra l’Africa settentrionale (araba e musulmana) e l’Africa nera.
Proprio da qui si dipartono le piste che, avventurandosi nel deserto del Sahara lungo le antiche rotte carovaniere, mettono in comunicazione con il bacino del Mediterraneo; con la differenza non da poco che rispetto al passato non si commerciano più spezie, avorio, sale ed oro ma bensì droga, armi ed esseri umani (questi ultimi, in verità rappresentano una costante), nel maggior parte dei casi con destinazione finale l’Europa.
Bisogna dunque riconoscere che i timori delle cancellerie occidentali sono, fino ad un certo punto, fondati: è infatti fuor di dubbio che alcuni degli elementi di preoccupazione dei quali si è già detto [7] trovino nell’instabilità regionale e nell’opaco intrecciarsi di interessi un pericoloso comburente. Nel contempo non convince del tutto, non fosse altro per l’ineluttabilità con la quale il processo viene proposto, questa sorta di rivisitazione in salsa africana della teoria del domino, per cui attraverso la porta del Corno d’Africa l’Islam radicale si diffonde lungo l’asse est – ovest e di qui, una volta dopo avervi trovato riparo ed aver posto radici, si propaga a nord e a sud portando al fallimento i vari Stati che esso attraversa.
Fonte: International Center for Terrorism StudiesSi è difatti dell’avviso che le realtà statuali dell’area, in taluni casi con l’indispensabile supporto dell’Occidente, abbiano alcune importanti carte da giocarsi prima di dichiarare persa la partita.
In particolare l’analisi sopra effettuata, nello stesso momento in cui evidenzia i nessi esistenti tra i fattori geografici e climatici da una parte ed i cambiamenti socio-economici dall’altra, suggerisce quali siano gli strumenti più efficaci per agire all’origine dei problemi: così se sul clima è difficile intervenire, sicuramente è possibile cercare di smussarne gli effetti, ad esempio assicurando l’accesso all’acqua attraverso la realizzazione di pozzi [8]. La disponibilità di questo elemento vitale assicurerebbe alle popolazioni di abbeverare greggi e raccolti e, di conseguenza, di superare i periodi di siccità senza dover abbandonare i propri villaggi. A sua volta la stabilizzazione del tessuto socio-economico tradizionale, lungi dal significare la sua perpetuazione sine die, fornirebbe la cornice imprescindibile per attuare progetti più profondi di trasformazione e crescita della società e dell’economia locale, in particolare attraverso programmi di istruzione.
Si è infatti dell’avviso che solo a stabilità acquisita si potrebbe pensare di lanciare e realizzare quei progetti faraonici tanto cari ai governi e alle compagnie occidentali (come la costruzione di pipeline transahariane [9] oppure ancora di futuristiche centrali solari in pieno deserto) e che pur troverebbero, nello specifico, una loro giustificazione nella necessità da parte del Vecchio Continente di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico. Purtroppo quest’ultimo finora non si è contraddistinto per lungimiranza, riproponendo quell’opzione militare tanto cara agli Stati Uniti [10] che è già stato rilevato essere addirittura controproducente: dal Mali al Niger, dal Ciad al Sud Sudan praticamente non c’è Paese che non veda la presenza, sotto una qualche forma (consiglieri militari, reparti speciali, basi di droni), di soldati stranieri. Si pensi solo ad Operation Barkhane che, avviata lo scorso 1° agosto, sostituirà la stessa Serval in Mali ed Epervier in Ciad, con uno schieramento iniziale complessivo di 3000 soldati francesi. Eppure, a dispetto di tale dispiegamento, tanto l’avvio di un processo di nation building quanto la “messa in sicurezza” dell’area paiono essere obiettivi ben al di là dall’essere raggiunti.
Missioni militari straniere e missioni civili a maggio 2014 – Fonte: EU Institute for Security Studies Operation Barkhane, dispositivo francese – Fonte: France 24Naturalmente è ingiusto imputare tutte le colpe all’Occidente: gli stessi Stati africani, pur riuniti in numerosi organismi internazionali istituiti proprio con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico e la stabilità dell’area [11], non si sono dimostrati finora in grado di cambiare le sorti della regione; anzi, tali organismi spesso e volentieri sembrano strumenti creati appositamente da alcuni Stati per controllare / estendere la propria influenza sugli altri. Che la partecipazione o meno a tali consessi sia strumentale all’accrescimento della propria sfera di influenza è particolarmente evidente nei casi del Marocco, che si fa forte della tradizione e del prestigio della dinastia alawita [12], e dell’Algeria, che dal canto suo può vantare il prestigio derivante dalla duplice vittoria nella guerra d’indipendenza contro la Francia e nella guerra civile contro i terroristi del GIA negli anni Novanta.
Particolarmente istruttivo il caso del Marocco, il quale è l’unico Stato del Continente a non essere membro dell’Unione Africana, essendovi uscito allorquando nel 1984 quest’ultima riconobbe l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi (SADR); si trattò, per Rabat, di una grave battuta d’arresto nella realizzazione del definitivamente mai abbandonato progetto di “Grande Marocco” (si pensi al colpo di mano sull’isolotto di Perejil del 2002, n.d.r.) e che vedeva e vede le principali direttrici di espansione proprio verso sud, dove sorgeva la colonia spagnola del Sahara Occidentale e oltre verso la Mauritania, e verso est, ovvero verso l’Algeria [13].
Attualmente il Marocco occupa la fascia costiera e centrale dell’ex possedimento spagnolo e si oppone a qualsiasi ipotesi di referendum teso a definire i destini dell’area, impedendo de facto qualsiasi normalizzazione dei rapporti con la SADR e con gli Stati confinanti.
Alla luce di quanto esposto può essere considerato un caso se il citato CEMOC raggruppa attorno all’Algeria, altro Stato dell’Africa settentrionale, proprio quei Paesi del Sahel (ovvero Mali, Mauritania e Niger) che dal punto di vista geografico “cinturano” il Marocco? Evidentemente no. Ecco dunque individuata una costante delle dispute che interessano la regione, vale a dire la presenza, tra i contendenti, di Stati che geograficamente non vi appartengono; se ciò può essere stato “comprensibile” nel passato, in quanto spesso si trattava di definire confini tracciati col righello all’epoca del colonialismo (vedi il conflitto del 1987 tra Libia e Ciad per il controllo della striscia Aozou), lo è meno oggigiorno.
L’unica spiegazione plausibile è dunque che il Sahel, per molti Stati dell’Africa settentrionale, pur rappresentando una fonte di possibile instabilità [14], rappresenta nel contempo l’unico luogo verso il quale essi possono indirizzare le proprie direttrici di politica estera; il risultato, paradossale, è che essi stessi contribuiscono a creare quell’instabilità che poi cercano inefficacemente di prevenire.
Il Sahel, in conclusione, è una regione di importanza fondamentale per gli equilibri dell’Africa settentrionale e centrale e, di riflesso, per l’Europa meridionale; purtroppo la sua stabilizzazione è ostacolata dal sovrapporsi degli interessi e da un approccio sbagliato, finora eccessivamente sbilanciato sulla funzione militare. È necessario dunque che tutti facciano la loro parte: l’Europa cambiando modus operandi ed abbandonando atteggiamenti tipici del neocolonialismo, gli Stati africani coinvolti rendendosi conto che, al di là dei giochi sottobanco, è veramente nell’interesse di tutti un Sahel il più possibile stabile. Non dovesse ciò essere fatto, alla luce delle dinamiche socio-economiche in atto, è prevedibile un rafforzamento dei movimenti islamisti radicali. Con ricadute deleterie per tutti quanti.
* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)
[1] Vedi http://www.treccani.it/vocabolario/sahel/.
[2] Va peraltro sottolineato, come del resto fatto da alcuni analisti, come i successi ottenuti sul campo dai francesi e dai loro alleati regionali non vadano eccessivamente enfatizzati; in Mali come in altri teatri analoghi le milizie islamiste hanno rifiutato lo scontro aperto, optando per una ritirata strategica – agevolati in questo dalla porosità dei confini e dall’inospitalità dei luoghi – e preservando in tal modo le proprie capacità belliche, grazie alle quali poter riprendere, in un secondo momento, le operazioni tipiche della guerra asimmetrica per le quali esse risultano configurate. Si veda a proposito J. Husson, Operazione Serval: l’intervento francese in Mali, in Rivista Italiana Difesa, n. 3/2013 (a. XXXII), pp. 28-35.
[3] Vedi K. Rekawek, Terrorism in the Sahel in a global context: dismantling the narrative of ‘Afrighanistan’, in C. BARRIOS, T. KOEPF, Re-mapping the Sahel: transnational security challenges and international responses, Parigi, EU Institute for Security Studies, 2014, pp. 19 – 24, http://www.iss.europa.eu/uploads/media/Report_19_Sahel.pdf. La lettura integrale di questo paper è consigliata a chiunque voglia approfondire le proprie conoscenze sulla regione.
[4] Basti ricordare alcuni titoli del “ciclo africano” di Emilio Salgari, tra i quali “I predoni del Sahara” (1903) e “I briganti del Riff” (1911).
[5] Tra i principali gruppi vanno assolutamente ricordati: l’AQMI (Al Qaeda nel Magreb Islamico), il MUJAO (Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale) il quale si sarebbe fuso con la brigata El-Mourabitoune (Coloro che si firmano col sangue) comandata dal celebre Moktar Belmoktar, Ansar Eddine (i Difensori della Fede), il MIA (Movimento Islamico nell’Azawad) e l’MNLA (il “laico”, rispetto al precedente, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, rappresentativo di molti tuareg). Alcuni di questi gruppi avrebbero a loro volta interconnessioni con i nigeriani di Boko Haram e di Ansaru, nonché con i somali al-Shabaab.
[6] Vedi A. Thomas, Sahel villagers fleeing climate change must not be ignored, http://www.theguardian.com/global-development/poverty-matters/2013/aug/02/sahel-climate-change-displacement-migration.
[7] Per l’Italia in particolare il pensiero corre subito al fenomeno delle tristemente famose “carrette del mare”, che ha indotto il governo a mettere in piedi l’operazione Mare Nostrum.
[8] Romano Prodi, per due anni inviato speciale dell’ONU per la regione, non a caso metteva l’acqua in cima alla lista delle priorità; vedi Il mio piano per il Sahel: acqua, infrastrutture, salute, scuola, energia, http://www.romanoprodi.it/interviste/il-mio-piano-per-il-sahel-acqua-infrastrutture-salute-scuola-energia_7616.html.
[9] Vedi Sahara gas pipeline gets go-ahead, http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/8132823.stm.
[10] Washington schiera proprie truppe in ben 13 stati dell’Africa subsahariana. Vedi A. Taylor, MAP: The U.S. military currently has troops in these African countries, http://www.washingtonpost.com/blogs/worldviews/wp/2014/05/21/map-the-u-s-currently-has-troops-in-these-african-countries/.
[11] Amandine Gnanguênon, nel citato report sul Sahel (vedi n. 3), ne cita svariati tra i quali vanno almeno ricordati i seguenti: 1) il PCAR (Programme de cohérence d’action régionales de l’Afrique de l’Ouest pour la stabilité et le développement des espaces saharo-sahéliens), programma elaborato dall’ECOWAS (la Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale, n.d.r.) che punta sullo sviluppo economico come indispensabile tassello per assicurare la stabilità dell’area, 2) la parallela Sahel Strategy portata avanti dall’Unione Africana, 3) il cosiddetto G5, che vede la partecipazione dei capi di stato e di governo di Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso, 4) il Sahel Security College promosso dall’Unione Europea, 5) il “militare” Joint Military Staff Committee of the Sahel Region (noto anche con l’acronimo francese CEMOC, esso vede la partecipazione di Algeria, Mali, Mauritania e Niger) e, per finire, 6) la Fusion and Liaison Unit nata al fine di agevolare lo scambio di informazioni a livello di servizi segreti in seguito all’incontro di Nouakchott (o Nouakchott Process, a sua volta sorto sotto l’egida dell’Unione Africana).
[12] Tale dinastia regna sul Marocco dal 1659 e, come spesso capita, ha impreziosito la propria ascendenza facendola originare addirittura da Maometto; anche in virtù di questo vincolo di sangue con il Profeta i vari sultani e re che si sono succeduti al trono sono intervenuti nelle questioni religiose, facendosi propugnatori di una “versione” dell’Islam complessivamente moderata, specie in raffronto alla corrente wahabita alla quale si ispirano i fondamentalisti. Il favore con la quale l’Occidente guarda a questo islam “edulcorato” come antidoto alla penetrazione delle letture più integraliste del Corano potrebbe costituire una sorta di via libera all’estensione verso sud dell’influenza del Marocco.
[13] Algeria e Mauritania, dal canto loro, contrastarono questo progetto supportando militarmente il Fronte Polisario, espressione del popolo Saharawi.
[14] Il raggiungimento dell’indipendenza da parte del popolo Tuareg, ad esempio, metterebbe in discussione la sovranità di ben cinque Stati (ovvero Algeria, Burkina Faso, Libia, Mali e Niger) su porzioni più o meno cospicue dei propri territori.
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