di Marilù Oliva
“La vita oscena” è l’ultimo romanzo di Aldo Nove, uscito nel 2010 per Einaudi nella collana Stile libero, stessa dei precedenti Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda (1998), Amore mio infinito (2000) e La più grande balena morta della Lombardia (2004), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… (2006).
Bildungsroman inverso che parte dalla fanciullezza e arriva alle soglie dell’età adulta senza comportare una crescita intesa come acquisizione di consapevolezza, questo struggente romanzo è un tracciato tutto interiore che conduce il lettore dall’infanzia alla perdizione del protagonista, perdizione intesa come vita svuotata – la recherche, semmai, potrebbe acquisire valore di significato se questa non portasse ogni volta al non-sense dell’esistenza.
La vicenda è autobiografica anche se l’autore stesso precisa entro quali limiti intenda la verità vissuta, quando dichiara che qui si trova, «più che verità, direi sincerità. E precisione». E parte dai primordi della formazione, quando lui bambino viene catapultato, fin dalle prime pagine, nella tragedia che segnerà la sua vita: perde i genitori, prima il padre e poi la madre.
Stigmatizzato dalla solitudine, dall’abbandono forzato, il bambino abituato ad osservare i ragni, a perdersi tra le margherite e a cantare jingle di Carosello col padre o ad assecondare le inclinazioni da hippy della madre, risponde alla ferocia della vita abbandonandosi alla catabasi che ne consegue.
La madre e i suoi aneliti di adesione alla vita altro non sono che un’anticipazione di una diversa adesione, quella dannata e disperatissima della discesa agli inferi che caratterizzerà la seconda parte del libro:
«Mia madre faceva il verso alle persone antipatiche e mi faceva morire dal ridere.
Mia madre quando eravamo in campagna faceva le capriole e diceva che forse era troppo grande per farle e poi diceva che no, non era troppo grande.
Faceva un’altra capriola e ripeteva che voleva essere una zingara. Per essere libera, davvero libera.
Mia madre parlava con gli animali e diceva che loro capivano meglio delle persone.
Mia madre diceva che dopo la morte tutti ci saremmo sciolti nell’universo, e che eravamo parte dell’universo ed eravamo uguali alle piante, agli animali e alle stelle, in paese della Terra».
Le iniziazioni sono diverse e non si riducono a pure, frenetiche sperimentazioni sessuali, laddove il sesso o la pornografia sono metafore di più potenti aneliti, non ultima la comprensione del mondo, da parte del ragazzo, l’impazienza dir un contatto o di una comunione con l’altro e in primis con se stesso. E se vogliamo, anche la cocaina plurinvocata, oltre a uno scollamento totale dell’io dal sé medesimo, rappresenta, per assurdo, col suo candore e la sua impalpabilità, un desiderio di purezza.
La scrittura procede su una lingua essenziale ma carica: frasi concentrate, spietate, sintagmi ridotti ai minimi termini ma infiniti nelle loro implicazioni. E la lirica spicca tra il dolore.
Un libro forte, di quelli che scuotono, di quelli che possiedono la stessa carica della poesia. E quanto la poesia conti nella vita e nella produzione di Aldo Nove già lo sappiamo, ma lui a pag. 54 le dedica qualche riga. Chiarendo perché, da essa, sia tanto calamitato:
«Mi interessava la poesia.
Perché potevo leggerla per una pagina e chiudere il libro senza dovermi chiedere come sarebbe andata a finire. Perché era a frammenti, come la mia vita. Perché sapeva raccontarmela in modo aspro, senza la compassione che si dà a chi non sta bene. Aprendone squarci improvvisi.
Perché cercava la verità e non il successo.
Perché la vera poesia è crudele.
Perché la vera poesia fa male».