Si parla spesso di teorie antropologiche, studi sul campo e ricerche in laboratorio. Raramente delle applicazioni pratiche dell’antropologia e ancora meno degli sbocchi lavorativi offerti ai giovani antropologi. Di solito vengono menzionate opportunità “classiche” come la ricerca, l’insegnamento, musei e cooperative di scavo, settori in cui il lavoro dell’antropologo è necessario ma di scarso respiro professionale, vuoi per la scarsità di posti vuoi per la difficile crescita professionale in questi ambiti.
Una situazione dovuta anche alla scarsa conoscenza del pubblico e delle aziende della figura professionale dell’antropologo e delle sue competenze. Se non conosciamo un “prodotto” non ci verrebbe mai in mente di comprarlo, anche se potrebbe essere la soluzione a un problema reale che ci si è presentato!
Le descrizioni che si trovano in rete sono espressioni inconsapevoli di questa situazione. Prendiamo ad esempio quanto riportato sulla Guida al Mondo delle Professioni:
Le attivita dell’antropologo possono comprendere: mettere a punto dei progetti di ricerca, sulla base dei propri interessi, dei finanziamenti disponibili, dei temi oggetto di dibattito scientifico; svolgere attivita di ricerca sulla base della propria specializzazione; scrivere i risultati della ricerca in saggi destinati alla pubblicazione.
In parole povere, un lavoro puramente intellettuale. I neolaureati, come si può immaginare, sono i primi a sentire il problema senza però avere strumenti per intravedere una soluzione. Emblematica, a riguardo, fu l’assemblea organizzata nel 2009 dagli studenti e dai laureati dell’Università di Torino, insieme ai professori del corso di laurea specialistica in Antropologia Culturale. Purtroppo, però, iniziative simili rimangono spesso lettera morta.
Eppure ci sono diversi esempi applicativi dell’antropologia, sia fisica che culturale. In Professione Antropologo ne ho riportati alcuni, scelti tra una rosa che sembrava particolarmente significativa. Qui non vorrei tanto snocciolare esempi, quanto ragionare sulla possibile radice del problema. Certamente da una parte la formazione che non guarda al mondo del lavoro (annosa questione che non è esclusiva dell’antropologia!), dall’altra… gli stessi antropologi convinti che basta la formazione universitaria acquisita per essere competitivi.
Due aneddoti al riguardo.
1 – Leggevo a suo tempo l’editoriale di una rivista mensile nota tra gli archeologi, che lamentava di come una ragazza che aveva risposto a un annuncio per archeologi non abbia superato il colloquio. Bel curriculum, anche qualche esperienza di campo, ma non aveva conoscenze pratiche. Ovvero, non conosceva la legge sui Beni Culturali, non sapeva come organizzare un progetto, non sapeva come fare un budget.
2- Qualche mese fa mi è capitato di sentire una collega statunitense, che non capiva come mai non riuscisse a trovare i fondi per un bellissimo progetto che stava cercando di avviare in India. Semplicemente, non aveva idea di cosa cerca un possibile finanziatore e di come presentare il progetto medesimo.
In parole povere, bisogna pensare a se stessi come a un prodotto da promuovere, confezionandosi addosso una strategia per promuoversi con i dovuti strumenti. Gli anglosassoni lo chiamano self marketing.
Soprattutto, bisogna avere il coraggio di sporcarsi le mani e fare anche ciò che non sembra in linea con il lavoro dell’antropologo. Troppo spesso, purtroppo, mi sono capitati davanti ragazzi che magari hanno belle idee, ma che non hanno voglia di calarsi nell’atto pratico, e noioso, di strutturare un progetto dall’inizio alla fine.
Qui a Roma ho conosciuto un ragazzo che appena laureatosi ha coniugato la sua passione per l’arte e l’antropologia proponendo un progetto al comune per andare nei quartieri problematici e creare iniziative che coniugassero le due cose, e il progetto è stato finanziato. Cosa manca nel mio quartiere? Come posso agire io, antropologo? A chi devo chiedere i fondi? Partire dal locale è un’ottima strategia!
Diventare promotori di se stessi non è un percorso facile, manca spesso la capacità di iniziare e la giusta prospettiva di avvio. Il primo passo è chiedersi cosa è per noi l’antropologia. So di ripetermi ma credo sia un concetto importante. Dire che abbiamo studiato antropologia per fare gli antropologi è una tautologia, sarebbe più corretto dire che eravamo interessati all’antropologia perchè vi vedevamo uno strumento per rispondere a domande che ci nascevano dentro, suscitate da quanto ci succedeva attorno. Dunque, un mezzo di interpretazione della realtà, e non un fine.
Mi piace a questo proposito citare un post di Velt, scritto a suo tempo sulla Comunità di Anthropos, che credo centri il punto della questione:
Vorrei concentrarmi ancora un po’ su cosa intendo io per lavoro in antropologia: non si tratta di fare le medesime cose che abbiamo fatto in università riproducendole fuori, ma prendere ciò che ci interessa dalla nostra formazione, modellarlo dove e come ci serve, testarlo sui micro o macro soggetti su cui vogliamo che il tutto funzioni, analizzare i ritorni, elaborare delle soluzioni, confezionare il pacchettino, modificare i nostri stili di comunicazione in base a chi ci rivolgiamo, far capire a chi ci ascolta che ciò che abbiamo creato ha non un valore in sè, ma un valore, un’utilità, un ritorno per gli altri.
E voi, che strategie state adottando per promuovervi come antropologi?