Magazine Cultura

Le mie letture – Satelliti della morte

Da Marcofre

“Dov’è il tuo bambino?” domandò Elsa.
Mette Olsen si guardò intorno smarrita, poi fece un cenno verso una porta socchiusa dal lato opposto della stanza.

L’investigatore privato Varg Veum è nel suo ufficio di Bergen quando riceve una telefonata. All’altro capo del telefono, una ex collega dell’assistenza sociale desidera vederlo. Nel successivo incontro, Varg scoprirà due cose: che è su una lista, e quella lista parla di morte. E che il passato è una bestia di cui non è semplice liberarsi. Perché reclama giustizia, o almeno un poco di compassione.
Ci si tuffa perciò indietro nel tempo: negli anni Settanta prima, poi negli Ottanta, con una breve digressione addirittura nell’Ottocento per un delitto la cui soluzione sembrava chiara e invece…

Benvenuti in Norvegia, dove la violenza sulle donne, il contrabbando di alcol o hashish, consegnano l’immagine di un Paese agli antipodi di certa “letteratura” che sogna paradisi in terra. Non c’è nulla del genere, solo squallore, e anche la favolosa esperienza degli anni Sessanta (tutto in fondo parte da lì), tra amore libero e pace e rock ‘n’ roll, finisce in pezzi.

In questa storia la cui risoluzione arriverà solo negli anni Novanta, si muove appunto Varg Veum. Un detective troppo idealista per l’assistenza sociale (dove hanno posto i burocrati), che sceglie l’investigazione per provare a rimettere ordine in una società che trita i soliti noti.

Sembra che la principale missione di molti sia di salvare le apparenze. Quello che accade è quello che i tuoi occhi vedono, o le parole dette da una persona; non c’è niente da portare alla luce, da scoprire. Si deve solo cercare di rafforzare i fatti, senza perdere troppo tempo a chiedersi il perché, o quali meccanismi hanno permesso agli eventi di verificarsi.

Pigrizia, ipocrisia, o forse consapevolezza che non c’è mai riscatto o speranza, serpeggiano lungo le pagine di questo giallo. E quando forse il riscatto è possibile, e tocca la persona meno “credibile”, si scatena ancora la violenza.

La storia si sviluppa per oltre 25 anni in un paesaggio dove un bambino, poi adolescente e infine uomo, sembra confermare in pieno gli stereotipi di cui una parte della società ha bisogno per continuare il suo cammino. Dovunque Jannegut vada (questo il nome dell’altro co-protagonista), dopo un po’ si verifica un omicidio, o addirittura un duplice delitto. Perché nato in un contesto degradato, quindi non può risalire la china. E dietro questi eventi, sempre la traccia di traffici illeciti, il solito corollario di persone che paiono essere in un modo, e sono tutt’altro.

L’unico schietto oltre a Varg, pare essere proprio Jannegut, perché dice sempre la verità, ma quando questa pratica è inserita in un contesto ambiguo, di criminalità discreta ma diffusa, chi può riuscire davvero a crederci?

Anche Varg è costretto ad arrendersi alle apparenze, ma l’appuntamento con la verità, o meglio con “le cose come stanno sul serio” è rimandato. Quello che per un lustro è mancato completamente, troverà la sua soluzione nel giro di poche ore.

La storia sembra complessa (come ho scritto: parte dagli anni Novanta, si torna nei Settanta, poi negli Ottanta), ma la narrazione scivola via con ordine e leggibilità. Il detective Varg ha il pregio di non giganteggiare (è il protagonista di oltre una decina di libri, ed è un’istituzione in Norvegia, e non solo lì). Si muove come un’ombra tra persone ed eventi, spinto da una cocciuta brama di inchiodare alle loro responsabilità le persone. Senza moralismi: ama farsi un goccetto (più di uno), detesta la violenza, riceve pugni e minacce. Alla fine, quello che lo muove non è l’esigenza di giustizia, ma un sentimento di affetto per quel piccolo Jannegut, ormai incattivito, probabilmente senza più speranza di redenzione.

Il sogno di integrazione della società norvegese, un sogno alla portata di chiunque, non importa quanto sfortunato, non finisce sotto l’immancabile gragnola di pallottole. Si è smarrito prima, da qualche parte: tra scartoffie e regolamenti, burocrati ligi al dovere e uffici, sembra suggerire l’Autore.

Forse ci voleva il genere giallo per fare il punto sulla situazione dello Stato sociale in Norvegia, e non è una situazione di cui essere allegri.

La storia si sviluppa in un Paese dove luoghi e ambienti paiono raggelati non dal freddo, ma da un sentimento di disillusione acida, che si scatena di tanto in tanto nella violenza. Buona parte delle azioni sono dettate dal denaro: non solo negli anni Ottanta, o Novanta (la nuova criminalità sbarca anche in Norvegia, eccome), ma anche negli idilliaci Sessanta il miraggio del denaro facile travolge e trascina all’inferno i più sprovveduti. Gli spregiudicati, attraverseranno indenni gli anni, troveranno infine il carcere, forse: ma quanto dolore e avranno disseminato nel frattempo? Quante vite innocenti avranno annientato?

Il finale lascia la giusta dose di incertezza sul destino di Jannegutt, e di chi gli ha rovinato l’esistenza. Non ci sono vincitori e vinti, ma solo chi è stato raggirato, e trascinato sempre più in basso, e chi al contrario, di quel raggiro è stato l’artefice.
Si salva solo chi è rimasto accanto alla vittima. Per compassione, affetto.

Varg Veum è il tipico detective che si aggira in un mondo che sente estraneo, non per portarci la speranza. Bensì per considerare cosa può portare l’abbandono di ogni speranza e nonostante tutto, aggrapparcisi con più determinazione che mai.

Un giallo che al di là delle apparenze si dimostra ambizioso; ma questa è ormai la cifra di questo genere, chiamato a fare luce sulle nostre società. Non solo crimini, e contrabbando che lasciano la loro scia per un tempo così lungo. Ma un affresco di cosa è successo, in una Norvegia che si è cullata nell’idea che lo stato sociale possa avere ragione di quella mina vagante che si chiama essere umano.

Varg Veum lavora di parole, non strattona né minaccia. È distante da Maigret (che si immerge nell’ambiente, quasi ne assorbe gli umori), e da certe figure sbrigative che abbiamo imparato a conoscere. Pare piuttosto una sorta di raccoglitore di pezzi di puzzle, mosso dalla certezza che con pazienza, il disegno reale emergerà. Non sarà un bel vedere, ma non importa.

I satelliti della morte. Autore: Gunnar Staalesen. Editore Iperborea. Traduzione a cura di Maria Valeria D’Avino.

Il libro e questa recensione, sono parte del concorso “Oltre il giallo” della casa editrice Iperborea. 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :