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Le nuove sfide della politica estera iraniana

Creato il 03 ottobre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Stefano Lupo

Le nuove sfide della politica estera iraniana
L’articolo è anche disponibile come Research Paper – scarica qui gratuitamente 

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La Repubblica Islamica dell’Iran é tutto fuorché un attore irrazionale sulla scena internazionale: come attore geo strategico e geopolitico, ha dimostrato più volte di essere in grado di adattare il proprio credo socioculturale alle contingenze del momento storico, senza venir meno all’obiettivo ultimo dello Stato, la sua sopravvivenza, certamente declinabile sia nel perpetuarsi del regime al governo, sia nella vera e propria continuazione fisica dello Stato inteso come tale (governo, territorio, cittadini). L’idea centrale nella politica estera iraniana, che spesso si nutre di vittimismo, senso di indipendenza, cultura della resistenza e pretesa di rispetto, pone l’imprescindibile rilevanza della protezione della sicurezza strategica nazionale, da raggiungere e mantenere sia sul piano economico e psicologico sia dal punto di vista politico e militare, una linea di condotta tuttavia adattabile a grandi mutamenti storici, come la congiuntura attuale internazionale sembra suggerire.

La riduzione della dimensione ideologica, già attuata da Khomeini, anche alla luce della guerra con l’Iraq tra 1980 e 1988, si inserisce nel livello strategico della percezione ritrovata che gli iraniani hanno di sé: libera dall’approccio terzomondista del “neither East, nor West“, la Repubblica Islamica dell’ultimo Khamenei, pragmatico, coadiuvato dal neo-presidente Hassan Rohani, conservatore realista, ha sostenuto, nella settimana di apertura della sessione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la necessità che la Comunità internazionale arrivi a considerare l’Iran come potenza regionale effettiva del nodo strategico che collega Vicino e Medio Oriente con l’Oceano Indiano, Golfo Persico e Asia Centrale, una sorta di giuntura cardine in un’area di forte instabilità. Per ottenere tale considerazione, il governo di Teheran si é dimostrato disposto a una modifica della propria tattica, rappresentata fino ad Ahmadinejad da un muro sul dossier nucleare – quindi la minaccia del raggiungimento della deterrenza atomica – in chiave diplomatica, avanzando timidi segnali di “feritoie” negoziali sia sul dossier nucleare, sia, a più ampio raggio, su questioni regionali quali la condizione siriana, candidandosi a partecipare all’auspicabile futura “Ginevra II”.

Posto che solamente nel contesto più ampio rappresentato dal quadro regionale, uno dei tre contrafforti della protezione repubblicana (Esteri-Regione-Interno), il Paese persiano può sperare di assicurarsi i ritorni politici e di sicurezza che ricerca, allentando la barriera di paria internazionale, la politica estera, secondo Rohani, deve sostenere la sicurezza nazionale, minacciata ora fortemente sia dalla postura che l’Iran ha tenuto negli ultimi anni, sia dalla economia in crollo verticale, sia dai mutamenti regionali non previsti né dalla Repubblica Islamica, né dal cosiddetto fronte occidentale di Stati Uniti, Unione Europea e Israele.

Alla luce dei cambiamenti, l’”eroica flessibilità” sovente citata in questo periodo e riportata a parole espresse da Khamenei, altro non vuol dire che l’adattabilità della politica estera iraniana in base a condizionamenti ambientali, una politica disposta a rivedere alcune posizioni di Teheran, ma sempre nell’ottica chiave, evidenziata anche nel discorso di Rohani in sede ONU, di un accordo alla pari, improntato al multilateralismo, senza condizione di “vincitori e vinti” (quindi non a somma zero). La pragmatica declinazione del regime degli Ayatollah, d’altro canto, pur nelle lotte intestine che frappongono nel fronte interno riformisti, conservatori e la variabile della Guardia della Rivoluzione, ben si esplica nel percorso storico della Repubblica stessa: posto di fronte ad alcune variabili geopolitiche, l’Iran é riuscito a sostenere la propria posizione con scelte difficili e in controtendenza con il proprio credo politico e socioculturale, come l’acquisto di armi da Israele durante la guerra con l’Iraq, come la cooperazione con gli Stati Uniti nella fase germinale dell’attacco all’Afghanistan nel 2001, in conseguenza del 09/11, come la cessazione dell’esportazione aggressiva dell’ideologia sciita nell’area del Golfo, per migliorare la propria posizione con i Paesi dell’area. A giudizio di chi scrive, tale solida base realista e pragmatica ha indirizzato le scelte della Guida Suprema Khamenei per quanto riguarda la linea dura sul nucleare: si badi, la scelta stessa di permettere l’elezione di Rohani é, oltre che acuta manovra interna, già l’incipit di una nuova tattica di Teheran, posta di fronte alla evidenza che la partita nucleare é inutile perché, alla lunga, non può essere vinta e perché, nel medio termine, può essere rimpiazzata da una deterrenza “da predominio regionale” che si potrebbe venire a creare se un numero consistente di variabili internazionali e interregionali si allineassero sulle volontà iraniane.

Tali variabili sono agilmente individuabili e riassumibili in sette punti: la questione siriana, le tensioni in Palestina, il problema afghano, l’Iraq e la sicurezza del Golfo Persico, l’estremismo islamico di matrice sunnita e/o etnica (da ricollegare anche al caso siriano), il dossier nucleare, la questione energetica e la logistica a riguardo. Con approccio realista, nucleare, Siria, Palestina sono i tre fronti in cui gli iraniani devono esercitare maggiormente il proprio interesse primario, per liberare quelle opportunità consequenziali che potrebbero rendere l’accettazione di controlli stretti sul proprio programma nucleare civile come il minore dei mali, posto anche l’eclatante affermazione di Obama di non volere un cambio di regime a Teheran.

I movimenti socioculturali arbitrariamente definiti come “Primavere arabe” hanno scompaginato la struttura protettiva del fronte di resistenza sciita che, come é risaputo, si dipana da Teheran fino alle spiagge libanesi passando, grazie alla poco acume strategico americano, dall’Iraq a predominanza sciita e dalla Siria di Assad. Il fenomeno delle “Primavere” aveva in un primo tempo incontrato il favore del regime persiano, per aver rotto il fronte di alcuni governi arabi filo-occidentali (Mubarak in primis), salvo poi essere considerata la peggiore delle disgrazie allo scoppiare del caos siriano. Tuttavia, da una situazione positiva tramutatasi in sciagura geo strategica potrebbe ancora sorgere, per l’amministrazione Rohani, una possibile uscita negoziale dalla propria condizione di empasse. Su che basi? Sulla constatazione che lo status quo ante in Siria non é recuperabile, sulla paura che la deriva sunnita esprima effetti degenerativi in Libano e in Iraq, sulla considerazione del peso economico dovuto al sostegno al regime di Assad, sull’ammissione che il rapporto con Hezbollah si sta consumando (per non parlare di quello con Hamas). Data per certa l’alta considerazione che gode in Teheran l’approccio cosiddetto della “interazione costruttiva” con i Paesi confinanti, anche avversari, e tenuto conto anche della forte volontà iraniana di emergere come leader regionale, nonostante Israele e l’Arabia Saudita, l’Iran sembra deciso a rivedere il proprio “soft power” (che, nonostante la presenza della Quds Force di Qassem Suleimani, ha recentemente traballato anche in Iraq) nella situazione siriana, portandosi, ironicamente, su posizioni simili a quelle statunitensi. Sia Stati Uniti sia Iran non possono accettare un frazionamento etnico/religioso della Siria, chiaramente per motivi diversi, ma ciononostante con obiettivi convergenti [1].

La Siria chiama in causa il rapporto con Israele, con Hamas di rimando e con gli Stati Uniti di conseguenza. Sembra proprio che la campagna pubblicitaria iraniana presso i sunniti, aiutando Hamas nella questione palestinese, non abbia dato i propri frutti; lo dimostra, per esempio, il passaggio di Khaled Mashal, uno dei leader storici di Hamas, dal sostegno al regime di Assad a quello del fronte ribelle. Diviene inevitabile quindi pensare, nonostante le reiterate esternazioni di Netanyahu in sede ONU, che una “diminutio” iraniana nei confronti di Hamas e un graduale scollamento da Hezbollah, sempre più dipendente dalle variabili interne libanesi, potrebbe essere quella chiave di volta necessaria per far accettare a Tel Aviv quel tavolo negoziale sul nucleare che Obama sembra desideroso di aprire, iniziando forse la politica del’ “abbraccio mortale” nei confronti di Teheran, una teoria in voga recentemente fra una certa schiera di analisti a Washington.

Tra Siria e questione del nucleare, per la quale si dovrà valutare la serietà del gruppo 5+1 e il negoziato da varare a partire da Ginevra il 15 e 16 ottobre prossimo, sembra quasi che l’Iran di Rohani e Khamenei (nella versione attuale) voglia liberarsi dei “rami morti” che gli impediscono quel respiro regionale da potenza di riferimento, che si intravvede come disegno complessivo di Teheran sul suo “lato destro”, verso Est. Si é molto parlato di un nuovo “grande gioco”, prima tra Russia e Stati Uniti sulla risoluzione siriana delle armi chimiche, ora tra Iran e Stati Uniti su nucleare e altri dossier. Più che di un’unica partita a scacchi, invece, si tratta di un intreccio di giochi, a livello regionale, interregionale e internazionale: l’esempio cardine è dato per l’Iran dalla interazione tra la questione afghana e il ruolo strategico di riferimento che Teheran vuole potenziare nell’Oceano Indiano. Questi dossier intersecano la partita iraniana con gli Stati Uniti in Afghanistan (da tenere conto il ritiro delle truppe NATO l’anno prossimo, così come le elezioni presidenziali di Aprile) e la macro partita geo-energetica tra Cina e India nell’Oceano che porta fino all’inizio del regno incontrastato di Teheran, lo stretto di Hormuz, quel “choke point” su cui l’Iran vuol basare l’alleanza in fieri con l’India grazie al porto di Chabahar, nel Balucistan iraniano, di rimando all’asse sino-pakistano del porto di Gwadar.

Sul caso afghano, due vecchie figure diplomatiche, l’attuale ministro degli Esteri Zarif e l’americano James Dobbins, da maggio 2013 rappresentante speciale USA per Afghanistan e Pakistan, si confronteranno sul caso di Kabul anche alla luce dell’antico legame scaturito dalla Conferenza di Bonn del 2001 [2], quando Iran e Stati Uniti si coordinarono per un breve periodo prima che il presidente Bush inserisse Teheran nell’”asse del male” nel 2002. Tanti, incredibilmente, i punti di contatto per la questione afghana: narcotraffico, il timore del ritorno dei talebani, la valutazione strategica dell’Afghanistan come hub di transito di rotte commerciali e snodi energetici.

Numerosi i casi da affrontare per Rohani, come il rapporto strano con Mosca, che sembra aver sostituito Teheran nel rapporto energetico con la Cina [3] ma che rimane un forte alleato in sede ONU e nel tavolo negoziale per il nucleare. Non sono neanche da sottovalutare i legami contrastanti dell’Iran con i Paesi del Golfo Persico, l’Arabia Saudita e la Turchia, mentre il rapporto con l’Unione Europea vive di riflesso rispetto a quello con gli Stati Uniti, nonostante i forti interessi commerciali di Germania e Italia su suolo iraniano. Rohani ha molto a cuore il rapporto con i sauditi, ben sapendo il ruolo formante della relazione con Ryadh rispetto tutte le altre: non a caso spesso riporta come grande successo personale l’accordo di sicurezza siglato con i sauditi, nonostante le rivalità, quando era ministro sotto Khatami e non a caso Khamenei ha promosso Ali Shamkhani, ex ammiraglio della marina dei Pasdaran e arabo-iraniano, come segretario del Consiglio Nazionale Supremo per la Sicurezza. Shamkhani é stato colui che in passato ha curato i rapporti con sauditi ed è riuscito a risolvere la querelle che animava lo scontro con gli Emirati Arabi a proposito delle tre isole nel golfo Persico di Grande Tomb, Piccola Tomb e Abu Musa.

Se l’Iran continuerà a mettere nei negoziati che verranno, si spera, la stessa attenzione pratica, é possibile che si possa avverare quello che ha annunciato anche il Segretario di Stato americano Kerry: se il dialogo sul nucleare avrà successo, un accordo potrebbe migliorare drasticamente i rapporti tra USA e Iran a livello complessivo. Sono lontani i tempi di Ahmadinejad. Forse [4].

* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)

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[1] Seyed Mousavian, The US with Iran in Syria, Project Syndicate, 12/9/13, www.projectsyndicate.org

[2] International Afghanistan Conference, Bonn, 05/12/2001

[3] Haeule &Jeffrey, The Middle East and the US-China Summit, Iranprimer, 05/06/13

[4] http://www.reuters.com/article/2013/09/29/us-iran-nuclear-usa-idUSBRE98S0IJ20130929

Photo credit: AFP/Atta Kenare

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