Il manager della globalizzazione che vince in America, con i soldi di Obama, e rilancia la Chrysler. Il manager che in Italia fallisce insieme al suo grandioso piano “Fabbrica Italia”. Un piano che doveva sfornare vagonate di prodotti e un esercito di posti di lavoro sicuri. L’Italia si divide su queste due facce della drammatica vicenda Fiat. Ma quasi tutti si scordano di una terza faccia che ha avuto successo e che continua a insidiare non solo il mondo del lavoro, bensì la coesione sociale del Paese, la possibilità di dar vita a relazioni tra capitale e lavoro basate almeno sul rispetto dei diversi ruoli.
Siamo stati coinvolti per mesi e mesi tra assemblee, referendum, articoli otto cari ai ministri del centro-destra. I cronisti correvano da Pomigliano, a Mirafiori, a Melfi, a Termini Imerese. Gran parte dei commentatori schernivano la Fiom e le sue pretese di voler vedere quel fatidico “piano industriale” sempre rimasto nell’ombra e che solo ora sembra riapparire, completamente scarnificato. Gruppi non modesti d’insigni giuristi (no, non Pietro Ichino) denunciavano il massacro del diritto del lavoro. La terza faccia era all’insegna dei diktat: prendere o lasciare. La minaccia pesante era: se non ci state la Fiat se ne va, se ci state la Fiat diventerà l’eldorado dell’industria automobilistica. Occorreva ingoiare non solo diciotto turni di lavoro, ma anche l’esigenza di mettere il sindacato in manette, perché bisognava vietare qualsiasi protesta, magari anche qualche proposta, mentre si esperimentava un’organizzazione del lavoro chapliniana. E chi insisteva a non stare al gioco – vedi la Fiom – veniva espulso, ricorrendo con luciferina astuzia a una correzione conquistata (vedi come vanno le cose) da un antico referendum dell’ultra sinistra. Addirittura si staccavano le pagine dell’”Unità” dalle bacheche operaie come se improvvisamente il giornale fosse riconosciuto come un foglio eversivo, iper-rivoluzionario.
E così i sindacati si spaccavano, gli accordi (tra i metalmeccanici, non tra i seguaci del chimico Giorgio Squinzi) si facevano separati, le aule dei tribunali si riempivano di vertenze. Non contento il manager globalizzante spaccava anche il fronte imprenditoriale, considerato come un nucleo di pappe molli, uscendo dalla sua organizzazione la Federmeccanica, sperando di esportare in Italia un modello moderno: la giungla dei rapporti di lavoro dove ognuno fa per sé. E molti, sempre tra i noti commentatori, suonavano la tromba e spiegavano che era solo l’inizio di una polverizzazione delle organizzazioni imprenditoriali. Ecco, per quanto riguarda questa terza faccia, Marchionne per ora non è fallito. Ha portato a casa seri risultati. E il suo seme avvelenato continua a gettare germogli. Sarebbe necessario un diserbante. Fatto sta che la Federmeccanica oggi fa partire le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro senza la Fiom, il sindacato principale.
Io non credo serva a qualcosa irridere a chi aveva creduto nelle promesse Fiat. C’è semmai da chiedersi che cosa è servito questo sconquasso e a che cosa serve prolungarlo. Non certo a vendere le automobili, a dare fiato al lavoro e all’economia. Bisognerebbe, senza ripicche reciproche, correre ai ripari, non solo per impedire che l’Italia perda un altro pezzo d’industria definitivamente. Ma anche per ridare al lavoro, ai metalmeccanici in primo luogo, il ruolo che hanno sempre avuto. Un ruolo d’avanguardia davvero, forte della propria unità. Soprattutto nel ciclone della crisi è assurdo vedere un movimento sindacale che marcia diviso (in Europa non succede). Solo una seria mobilitazione unitaria che colga anche le interessanti sortite nel campo padronale (anche se Cesare Romiti e Della Valle non sono di certo diventati di colpo angioletti misericordiosi) può cercare di invertire la rotta. Sui temi della crescita (la vera priorità) e su quelli delle regole del lavoro. Magari senza attendere, ancora una volta, futuribili referendum.