di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto
«Quello che la natura fa ciecamente, lentamente e brutalmente, l’uomo può fare con lungimiranza, rapidità e delicatezza. Il miglioramento del nostro lignaggio mi sembra uno dei più alti scopi che ci sia dato di perseguire razionalmente»: così scriveva Francis Galton nei suoi “Saggi” a proposito dell’importanza positiva della pratica eugenetica.
Di un tal brano sembrano le parafrasi alcune pronunce delle corti nazionali e internazionali, allorquando autorizzano operazioni e procedure bio-mediche che si sostanziano in vere e proprie forme di nuova selezione eugenetica. Lo scorso 26 settembre 2013, infatti, il Tribunale di Roma ha sferzato l’ultimo colpo, in ordine temporale, alla legge 40/2004 disciplinante le norme in materia di PMA, stabilendo la legittimità della richiesta di accesso alle tecniche di PMA da parte di una coppia fertile che intende procedere alla selezione embrionale pre-impianto in quanto affetta da fibrosi cistica.
Alcune brevi considerazioni di carattere bio-giuridico s’impongono. Sotto l’aspetto più strettamente normativo non può evitarsi di notare che il giudice abbia stravolto già fin dall’inizio la lettera e lo spirito della suddetta legge consentendo ad una coppia fertile l’accesso alle tecniche di PMA contravvenendo al comma 1 dell’art. 4 della suddetta legge che, invece, prevede di potervi fare ricorso solo quando «sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione» e quindi ai soli casi «di sterilità o infertilità inspiegate documentate da atto medico, nonché ai casi ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».
La corte dunque ha autorizzato l’accesso alle tecniche di PMA per chi è privo dei requisiti richiesti dalla legge stessa; la violazione di ogni buon senso e della prudenza, che dovrebbero essere tratti tipici di chi ha studiato per l’appunto giurisprudenza, viene in risalto nella sua massima tragicità, come accadrebbe per quell’arbitro che decidesse di far vincere una squadra che neanche fosse inscritta al campionato. Inoltre, la stessa legge, alla lettera b del comma 3 dell’art. 13, vieta espressamente ogni tipo di selezione embrionale, soprattutto a scopo eugenetico.
Disancorandosi, tuttavia, dalla questione meramente normativa, non si può fare a meno di notare la criticità di una simile decisione almeno per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, scardinando la griglia dei requisiti posti dalla stessa legge, si avvalora l’idea che la medicina e la tecnica altro non siano che strumenti per la mera realizzazione dei desideri umani di ogni ordine e specie. In secondo luogo, si pongono in essere pratiche palesemente eugenetiche che, pur non coercitivamente contemplate e messe in essere da un apparato autoritario come lo Stato, e dunque su richiesta dei singoli, sono ugualmente in diretto contrasto con i principi “neminem laedere” (non ledere nessuno) e “unicuique suum tribuere” (dare a ciascuno il suo), cioè con sommi principi pre-ordinamentali e ultra-normativi, della giustizia, in quanto, tramite la selezione embrionale, si lede la posizione giuridica dell’embrione, tutelato dall’articolo 1 della stessa legge 40/2004, e non “gli si dà il suo”, cioè non si riconosce il suo diritto ad esistere anche se affetto dalle patologie più disparate.
La legge 40/2004, così subdolamente, ma cinicamente violentata per mano della stessa giurisprudenza, costituisce, dunque, un presidio non solo di legalità, bensì anche di giustizia, consentendo di tutelare le posizioni di coloro che, più deboli, non possono farsi giustizia da sé. Difendere la legge 40/2004, e nella specie il divieto di selezione eugenetica da essa sancito, non vuol dire dunque arroccarsi su posizione ideologiche, ma semmai su posizioni tipicamente giuridiche, specialmente se si guarda all’orizzonte, cioè verso la possibilità che, cadendo un simile divieto tramite le fantasiose interpretazioni delle corti di merito e di legittimità, possa inserirsi l’ombra oscura di un mercatismo bio-medico, con inevitabile aggravamento della situazione.
Ipotesi non tanto peregrina e nemmeno tanto iperbolica, posto che già un decennio or sono il noto filantropo Robert Graham fondò la “Repository for germinal Choice” con lo scopo di fornire alle donne interessate, e a prezzi non esorbitanti, la possibilità di accedere al liquido seminale di prestigiosi premi nobel per garantirsi una discendenza adeguata di alto livello intellettuale. La suddetta decisione del Tribunale di Roma apre la via, dunque, a scenari ancor più problematici di ciò che si possa ritenere a prima vista.
Difendere i principi di base posti a fondamento di alcuni dei divieti della legge 40/2004 significa, con le parole del filosofo di Harvard Michael Sandel «evitare un uso arbitrario dell’inizio della vita umana, e far sì che il progresso biomedico sia una benedizione per la salute, anziché una tappa dell’erosione della nostra sensibilità».