Io volevo diventare amico del maestro Marcello D’Orta. Gli avevo mandato pure un messaggio su Facebook. Ma lui, purtroppo, è morto. Che brutta cosa è la morte. Se non tutti, almeno le persone buone non dovrebbero morire.
Molti lo ricordano per la pubblicazione del divertente libro “Io speriamo che me la cavo”, una raccolta di temi dei bambini della scuola elementare di Arzano, in provincia di Napoli. Il maestro è morto per una brutta malattia e mi piace credere che almeno, prima di lui, sia morto l’ignoto Giovanni. Nel libro, infatti, un suo alunno aveva scritto teneramente: «Gli ho detto che non voglio morire mai, ma lui ha risposto che, prima o poi, tutti quanti dobbiamo morire. Io ora vorrei dire una cosa: prima di morire io, deve prima morire Giovanni!»
«Possa un coro d’angeli aver accompagnato la sua anima in Paradiso». Questa frase non vuole essere un necrologio che io dedico a Marcello D’Orta in occasione della sua morte, ma sono le parole che lui stesso annotava in quel libro che mi ha sorpreso di più tra tutti i suoi sorprendenti libri. D’Orta era dotato della virtù della serenità, oggi non più ricercata dagli uomini, ed era diventato l’icona del “maestro buono” perché, novello don Milani, aveva restituito dignità a tutti gli scolari “di serie B” e anche a tutta la scuola italiana; per la quale la definizione di “sgarrupata” riportata in Io speriamo che me la cavo, indubbiamente, è quella che più si adatta.
Ma non è per questo che io mandai al maestro un messaggio su Facebook. In realtà io volevo diventare suo amico, sia pure con tutta la discrezione di un’amicizia virtuale, perché lui aveva scritto quel libro dal quale ho preso quella frase sul Paradiso. Il libro è uno studio molto serio su Leopardi e si intitola All’apparir del vero. Il mistero della conversione e della morte di Giacomo Leopardi (Edizioni Piemme, 2012).
Lui indirizzava la frase proprio al poeta di Recanati: «Possa un coro d’angeli aver accompagnato la sua anima in Paradiso». Il titolo del libro e questa frase sono indubbiamente delle grosse provocazioni. Giacomo Leopardi, infatti, è ritenuto comunemente un irriducibile ateo; tanti sono i brani della sua produzione letteraria che confermerebbero il suo rifiuto della religione. Un rifiuto che sarebbe perfettamente coerente col suo radicale pessimismo. Se l’uomo, come sembra dire il poeta, è condannato a una condizione di infelicità, dov’è la salvezza? Dov’è il Paradiso? E cosa rappresentano, agli occhi di Leopardi, le religioni se non l’idea della tardiva consolazione di un premio “fuor della vita” – come dirà Manzoni nell’Adelchi – l’inaccettabile consolazione di una felicità che si pone fuori dalla concretezza della vita, che è stata fatta fuori, che è stata espulsa dalla realtà? È di fronte a queste domande che si vede tutto lo spessore culturale di Marcello D’Orta perché egli aveva l’onestà di non smussare nulla, nemmeno le espressioni più scomode, del pensiero leopardiano.
E a questo proposito cita una delle pagine più sconvolgenti e più censurate dello Zibaldone (4174), dove il poeta di Recanati scrive: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male, che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per un fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male (…) Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose; tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso de’ tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità».
Se le cose stanno veramente così, osserva però D’Orta, perché invece di cedere alla rassegnazione, come la saggezza umana vorrebbe, Leopardi rivolge proprio a Dio il grido straziante della sua infelicità? E addirittura a Lui, nonostante gli attribuisca una natura malvagia, rivolge una richiesta precisa e insistente, una richiesta incredibile: che almeno la sua dolorosa esistenza non si trascini a lungo. «Concedimi ch’io non passi il 7° lustro» scrive Leopardi nell’Inno ad Arimane, «Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte». È un’implorazione che certamente il poeta rivolge con la consapevolezza della gravità di queste parole, una preghiera – e probabilmente Leopardi lo presentiva – destinata, terribilmente, a non rimanere inascoltata. Dietro questo dio malvagio, il cristiano non può riconoscere affatto il vero Dio; anzi, questa è stata interpretata da alcuni come un’invocazione blasfema, rivolta addirittura al principe del male, a Satana.
Tutto ciò sarebbe a dir poco scandaloso e contro Leopardi farà sentire la sua potente voce il cardinale Luigi Lambruschini, nientemeno che Segretario di Stato di Papa Gregorio XVI, il quale tuonava: «Leopardi fu autore di una produzione letteraria irreligiosissima nella quale egli professa il materialismo unitamente alle più irreligiose follie dettatagli dal suo spirito oltremodo guasto e maniaco».
Ma si può definire rozzamente “irreligiosissima” la posizione umana di Giacomo Leopardi? Sicuramente, il genio del poeta non ha potuto non riconoscere, come osserva giustamente Marcello D’Orta, che «ogni uomo (grande o piccolo che sia) si rende conto del Mistero in cui siamo immersi». Certamente, egli «si trovò subito a contatto con l’infinito, che non negò, anzi cantò in versi sublimi, nel tentativo, disperato, di scorgervi il suo Autore». E con questo il maestro D’Orta riconduce la questione nel suo punto veramente nodale: se il cuore dell’uomo tende all’infinito, nessuna delle cose terrene potrebbe mai veramente soddisfarlo.
Incidentalmente, bisogna far notare che l’infelicità leopardiana è da intendere non tanto in opposizione a uno stato di grazia, o alla Grazia divina, quanto appunto come insoddisfazione. C’è un brano dello Zibaldone, citato in All’apparir del vero di D’Orta, dove ciò balza in tutta la sua evidenza. Scrive Leopardi: «Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è l’infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici (…) cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti». È evidente che non può esservi felicità nel regno animale se non come soddisfazione degli istinti. Credo che, di conseguenza, il termine “felicità” debba essere inteso qui nel senso della mera soddisfazione dei bisogni terreni. L’idea dell’umana infelicità, nel senso leopardiano, non può quindi essere ritenuta “irreligiosissima” e in contrasto col sommo Bene; anzi, è portata dal poeta di Recanati come «una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima».
Lo studio pubblicato da Marcello D’Orta da questo punto di vista riesce a fugare ogni dubbio in proposito. Dimostrando che non soltanto non vi sarebbe opposizione tra la visione di Leopardi e la realtà della Rivelazione ma addirittura che il cosiddetto pessimismo leopardiano scaturisce direttamente dal testo rivelato della sacra Bibbia. Le corrispondenze che D’Orta riporta a sostegno di questa tesi sono numerosissime e convincenti. Riporto qui solo il caso del Salmo 8:
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita / la luna e le stelle che tu hai fissato, / che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi? / Il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Alla luce del Salmo è davvero sorprendente, nota Marcello D’Orta, la concordanza tra il testo sacro e i versi di Giacomo Leopardi che nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia scrive:
E quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?
Marcello D’Orta spiega che Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, «aveva realizzato una biblioteca considerevole, acquistando (a chili) libri provenienti per la maggior parte da biblioteche di conventi soppressi dalle leggi napoleoniche. Erano tempi buoni per l’acquisto di libri, e Monaldo ci seppe fare. […] Il pezzo più pregiato era senz’altro la Biblia Sacra Poliglotta. Si trattava di una Bibbia in varie lingue: ebraico, aramaico, siriano, samaritano, arabo, etiopico, greco e latino, stampata a Londra nel 1655 e curata dal vescovo anglicano Brian Walton. Constava di sei volumi, e ancor oggi può essere considerata una delle più importanti edizioni mai pubblicate della Bibbia. Fu soprattutto su questo libro che Giacomo adolescente imparò il greco e l’ebraico, in uno studio autodidatta che meravigliò, e anzi sbalordì i sapienti che lo incontrarono».
Insomma, la formazione culturale leopardiana sarebbe strettamente legata allo studio della Sacra Scrittura. In special modo, a parere di D’Orta, ai libri sapienziali: il Qoelet, il libro di Giobbe e, come abbiamo visto, i Salmi. Al di là, comunque, di quelle che possono essere state le incomprensioni dell’epoca, la religiosità di Giacomo Leopardi sarà infine ampiamente riconosciuta dalla cultura cristiana degli anni successivi al Concilio Vaticano II, particolarmente da parte di don Divo Barsotti e di don Luigi Giussani.
Vari sono gli spunti di riflessione offerti da don Barsotti e riportati nel libro di D’Orta: «L’opera poetica del Leopardi (…) è una delle più alte e commoventi testimonianze religiose del nostro Ottocento», «Il suo rifiuto di credere (…) è provocazione a Dio perché si riveli», «In Leopardi Dio è sempre presente: il suo rifiuto non è assoluto», «Può sembrare qualche volta anche odio, ma (…) testimonianza di un amore deluso», «Aveva lottato contro Dio, non lo aveva negato; aveva potuto anche bestemmiarlo, ma (…) nonostante tutto, continuava a pregarlo».
Aggiunge poi Marcello D’Orta: «Questo lo sapeva bene don Giussani che ripeteva poesie di Leopardi tutti i giorni, che accostava l’autore dell’Infinito a Pascal, che trovava punti di contatto tra una sua poesia sepolcrale (Sopra il ritratto di una bella donna scolpita nel monumento sepolcrale della medesima) e una pagina del Vangelo di san Giovanni, che – addirittura – recitava brani delle sue poesie come ringraziamento alla Santa Comunione. Fra queste poesie, una gli fu più cara: Alla sua donna. Perché? Perché in essa don Giussani leggeva come una preghiera a Dio di rivelarsi, come un inno alla Bellezza il cui solo immaginare rende beati. “Non la donna – scrive – egli vagheggia ( … ) ma ciò a cui la donna lo richiama”, cioè il Creatore di tutte le cose, il Creatore delle creature. E conclude: “Nonostante tutta la sua negazione ( … ) Leopardi [Dio] lo ha affermato ( … ) E lo ha [affermato] con una delle poesie più stupefacenti che si possono leggere a questo mondo (…) È esattamente questa poesia che mi ha persuaso della positività affascinante, dal punto di vista spirituale di questo (…) autore”».
Marcello D’Orta ha proprio ragione. E voglio citare i versi di una poesia che il maestro diceva di amare particolarmente, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, versi tra i più belli della letteratura e che recitano:
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / Rida la primavera, / A chi giovi l’ardore, e che procacci / Il verno co’ suoi ghiacci.
Noi vediamo qui come Leopardi immagini che tutta la natura, definita talvolta come matrigna, in realtà tende verso quel Mistero che amorevolmente la ridesta alla vita, tende a esprimere la gloria del Mistero; è come se l’atto stesso del risveglio primaverile sia generato da questa attrattiva che il Mistero esercita sulla natura.
Se Giacomo Leopardi è stato un irriducibile ateo, bisogna dire anche che è stato un ateo che ha avvertito potentemente l’attrattiva dell’Essere. E cos’altro può fare un povero uomo, ateo o credente che sia, se non desiderare con tutte le sue forze l’Essere? Quell’Essere che, unico, può strapparlo da quella inconsistenza che gli fa gridare talvolta che «non v’ha altro di buono che quel che non è».
«Possa un coro d’angeli aver accompagnato la sua anima in Paradiso».
Mi dispiace non poter parlare adesso col maestro Marcello D’Orta, per dirgli queste cose e per esprimergli la mia gratitudine per questa sua bella lezione su Leopardi. È morto all’età di sessant’anni, la stessa età di quell’altro grande scrittore che è stato Giovannino Guareschi al quale, adesso che ci penso, somiglia anche un po’. Di Guareschi scrissi che sebbene la sua prematura morte abbia addolorato molti suoi lettori, bisogna riconoscere che un uomo-ragazzo come lui non poteva proprio invecchiare, che la sua esistenza non poteva essere lambita dalla vecchiaia, che nella vita poteva essere soltanto un uomo giovane e che – lo sappiamo – oltre i sessant’anni una giovinezza proprio non può andare. Dico la stessa cosa ora del maestro D’Orta.
Desidero anch’io che l’anima di Leopardi possa essere stata accompagnata dagli angeli verso il Paradiso. È vero, a parte don Divo Barsotti, don Luigi Giussani e qualche altro, non è stato molto amato dai preti. Ma di questo a Dio che cosa gliene importa? Dio non è mica un prete. Credo perciò che a Leopardi non gli sbatterà la porta in faccia.
Io non sono riuscito a diventare amico del maestro D’Orta su Facebook. Credo però che in Paradiso ci riuscirò. Lì certe cose funzionano perfino meglio della banda larga.