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Dissonanze tra “Cristo si è fermato a Eboli” e “Il carcere”
Sia Cesare Pavese, sia Carlo Levi hanno subito sotto la dittatura fascista la condanna al confino, traducendo poi, come loro consuetudine, l’esperienza, le emozioni e le riflessioni che ne sono scaturite in narrazione; hanno però adottato una diversa prospettiva, sintomatica delle loro distinte personalità. Levi in Cristo si è fermato a Eboli rende conto, con partecipe attenzione, della miseria e della sudditanza in cui vessano i contadini, lucani e non solo; Pavese nel Carcere non distoglie lo sguardo da se stesso, dalla solitudine che alligna in ogni uomo e di cui l’esilio non è che una tangibile metafora.
Carlo Levi (1902-1975) fu un antifascista convinto, come tra l’altro dimostra l’adesione alle istanze di “Giustizia e Libertà”, che gli valse l’arresto nel 1934 e il confino in Lucania. Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945, documenta come nel Sud della penisola la dimensione storica del fascismo e quella atemporale del Meridione rurale convivessero indifferenti l’una all’altra: prima con curiosità e distacco, poi con intima commozione, lo scrittore osserva e inizia a comprendere quel mondo superstizioso e rassegnato, ma intimamente poetico, dove la fame e la fatica ottundono ogni altro orizzonte.
“Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.” (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi)
Davide Lajolo, il primo biografo di Cesare Pavese (1908-1950), rileva come lo scrittore è stato “sì un confinato politico, ma che non aveva fatto politica e non aveva – allora – alcuna intenzione di farne” (Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese, Il Saggiatore); la condanna di Pavese al confino nel 1935 deriva infatti, oltre che dall’aver accettato la direzione della renitente rivista «La Cultura», dalle sue frequentazioni antifasciste: il professore Augusto Monti, Leone Ginzburg (amico dai tempi dell’università), Tina Pizzardo, con cui ha intrecciato un legame amoroso. Non sorprende dunque che nel Carcere, pubblicato sempre da Einaudi nel 1948, non vi sia alcun cenno alla condizione storico-politica, poiché l’interesse del narratore è onninamente rivolto all’angosciante solitudine del protagonista, l’ingegner Stefano: la sua insufficienza morale, l’egoismo, il timore di essere ferito da sentimenti incontrollabili come l’amore e il desiderio, si scontrano incessantemente con il desiderio di calore e di contatti umani autentici; i due poli tra cui si è dibattuto lo stesso autore, uscendone dilaniato.
“Ogni dolcezza, ogni contatto, ogni abbandono, andava serrato nel cuore come in un carcere e disciplinato come un vizio, e più nulla doveva apparire all’esterno, alla coscienza. Più nulla doveva dipendere dall’esterno: né le cose né gli altri dovevano potere più nulla.Stefano strinse le labbra con una smorfia, perché sentiva la forza crescergli dentro amara e feconda. Non doveva più credere a nessuna speranza, ma prevenire ogni dolore accettandolo e divorandolo nell’isolamento.” (Cesare Pavese, Il carcere, Einaudi).
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