Magazine Diario personale

Maccarunaro

Da Antonio

Colui che vende ogni sorta di paste da minestra, traduce l’Andreoli.

Fu il suo avvento trionfale a trasformare i napoletani in “magnamaccarune”, da mangia foglie e mangia cavoli che erano. Scelta assennata in sé, poi esaltata dalla dieta mediterranea. I vecchi saggi già lo sapevano: «Vino e maccaroni so’ la cura pe li pormoni».

Piazzava il suo pentolone nelle strade trafficate, esponeva in una rastrelliera piatti capaci. Per chiedergli una pasta al giusto punto di cottura, nessuno ordinava spaghetti al dente: diceva verdi verdi.

All’epoca d’oro una razione costava due soldi: ‘o doje allattante indicava i maccheroni spolverati di formaggio e quindi bianchi come latte; ‘o doje alla Garibalde segnalava quelli con il pomodoro, vermigli come la camicia dell’eroe.

In “Römischer Sonne” (“Sotto il sole di Roma”) Webinger giurò di aver visto un nano divorare per scommessa un chilo di maccheroni in due minuti e venti secondi. Giurò anche – conferma di inattendibilità – che uno dei protettori di Napoli si chiamava Sanctus Maccaronius.

Gli indignati difensori ad oltranza delle patrie storielle respingono come una calunnia, o almeno come un’esagerazione, il colorito racconto di napoletani che mangiavano con le mani aprendo tre dita a mo’ di forchetta. Invece era vero e inevitabile. Uno stralcio da un resoconto di metà Ottocento: «…prendon la cotta pasta per una estremità, la approcciano alle labbra e poscia la ingoiano». Così era. Re Ferdinando, si racconta, colmò di onori e benemerenze il ciambellano Gennaro Spadaccini per una preziosa invenzione: Spadaccini aggiunse un quarto dente alla forchetta, che così finalmente trattenne l’intrico di vermicelli.

I maccarunari, come tali, sono un ricordo. L’ultimo operò sotto il porticato di via dei Tribunali fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.



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